Violenza politica, sicurezza alimentare e flussi migratori: l’arma letale della “fame”
L’aumento di movimenti estremisti e il verificarsi di attacchi terroristici in uno scenario di diffusa violenza politica in molte regioni del mondo ha fatto crescere negli ultimi anni la preoccupazione a livello mondiale per il sempre più ingente numero di comunità affette da instabilità politico-economica. Tali scenari conflittuali, spesso esacerbati anche dai disastri naturali ed da situazioni di emergenza, rischiano di tradursi per la popolazione dei Paesi a risorse limitate (i cosiddetti low-middle income countries) in un aumento diffuso della povertà fino a crisi acute in ambito di disponibilità alimentare, con un impatto immediato sulla dimensione dei flussi migratori, sia in territori limitrofi sia oltrepassando i confini internazionali. L’obiettivo di questo articolo è quello di analizzare la relazione bidirezionale tra violenza politica e sicurezza alimentare, supportando l’ipotesi di partenza che riconoscere e investire per assicurare il diritto al cibo sia essenziale, non solo in quanto diritto fondamentale dell’uomo, ma in maniera più generale per contribuire alla sicurezza interna e alla stabilità politica dei Paesi, anche quale forma di mitigazione del fenomeno dei flussi migratori di rifugiati e richiedenti asilo in Stati diversi da quello di appartenenza, o di Internally Displaced Persons -IDPs (persone dislocate internamente).
Per fare chiarezza sulla terminologia, faremo riferimento al termine rifugiato per indicare chi “temendo a ragione di essere perseguitato per motivi di razza, religione, nazionalità, appartenenza a un determinato gruppo sociale o opinioni politiche, si trova fuori del Paese in cui ha cittadinanza, e non può o non vuole a causa di tale timore, avvalersi della protezione di quel Paese”, come si legge all’art. 1 della Convenzione di Ginevra del 1951, un trattato delle Nazioni Unite firmato da 147 Paesi. Con il termine generico di profugo, oramai ricompreso nell’accezione moderna di rifugiato, si intendeva chi era costretto a lasciare il proprio Paese a causa di guerre, invasioni, rivolte o catastrofi naturali. Con richiedenti asilo, detti anche rifugiati ‘prima facie’, indicheremo persone per le quali non è stato ancora determinato se possiedono i requisiti per la protezione internazionale. Infine, parlando di Internally Displaced Persons – IDPs (persone dislocate internamente) identificheremo persone che, pur rimanendo nel proprio Stato di appartenenza, sono costrette a trasferirsi in un territorio diverso rispetto a quello di origine. Tale definizione è puramente descrittiva e non è associata ad alcuno speciale status nel diritto internazionale che ne tuteli la condizione [1].
Per la definizione di violenza politica faremo invece riferimento a “delle azioni – di grande impatto fisico e/o psicologico e che infliggono gravi danni – perpetrate da individui singoli, gruppi di persone o Stati al fine di raggiungere degli obiettivi politici in un territorio (tipicamente uno Stato) governato da un sistema politico che si ritiene avversario, nemico, da combattere e modificare in qualche sua forma” [2]. Rientrano all’interno dell’alveo della violenza politica fenomeni quali conflitti (etnici, razziali e religiosi), guerra civile, guerriglia, ribellioni, genocidi, guerre tra Stati e anche il terrorismo. In particolare, il terrorismo – di cui è possibile trovare analizzate diverse definizioni internazionali in [3] – può essere inteso sia come quello condotto da individui e gruppi interni contro lo stesso Stato di appartenenza, sia come quello messo in atto da forze di intelligence o da gruppi terroristici paramilitari che operano per conto di uno Stato al di fuori della nazione di appartenenza (terrorismo di stampo Statale [2]).
La spiegazione della locuzione ‘sicurezza alimentare’ necessita invece una trattazione più dettagliata di cui ci occuperemo nel successivo capitolo.
La “sicurezza alimentare”: food safety & food security
Il concetto di sicurezza alimentare ci porta a pensare sia ad aspetti di salubrità e sicurezza igienico-sanitaria dell’alimento (food safety), sia di accesso e diritto alla disponibilità di cibo (food security). Il vocabolario inglese aiuta a tenere ben distinti questi due aspetti, sebbene collegati, mentre in quello italiano vengono racchiusi entrambi nel concetto di ‘sicurezza’, rischiando di veder pendere l’ago della bilancia verso la componente che più si associa al nostro ambito culturale occidentale, ossia quello di sicurezza tossicologica, nutrizionale, igienica di un alimento e rispetto delle leggi di salubrità.
Muovendoci invece in un ambito più internazionale, il concetto di sicurezza alimentare che vogliamo qui analizzare è proprio quello di food security. La FAO [4] stabilisce che ‘food security exists when all people, at all times, have physical, social and economic access to sufficient, safe and nutritious food that meets their dietary needs and food preferences for an active and healthy life’ (la sicurezza alimentare esiste quando tutte le persone, in ogni momento, hanno accesso fisico, sociale ed economico ad un’alimentazione nutriente, sufficiente e sicura, tale da garantire le esigenze dietetiche e le preferenze alimentari per una vita attiva e salutare).
Il concetto di sicurezza alimentare implica non solo che sia garantito cibo sano, ma anche l’esigenza di cibo sufficientemente disponibile per tutti e stabilmente accessibile nel tempo. Affinché venga garantita la sicurezza alimentare, il cibo disponibile (availability) deve soddisfare quantitativamente e qualitativamente le esigenze alimentari e culturali degli individui; deve essere accessibile (access) a tutti sia in senso fisico sia economico, deve poter essere utilizzato (utilization) sia in termini di preparazione fisica (strumenti necessari) sia di tradizioni e conoscenze in ambito nutrizionale; infine deve essere assicurato stabilmente (stability) nel Paese e non deve essere compromesso né da crisi politiche o economiche, né da disastri naturali o instabilità climatiche stagionali.
La Dichiarazione Universale dei Diritti Umani del 1948 [5] riconosce all’art. 25 il diritto al cibo come uno degli elementi fondamentali tra gli imprescindibili diritti dell’uomo ad un tenore di vita adeguato e ad un’esistenza libera e dignitosa. Difatti, un’adeguata disponibilità di cibo ha da sempre costituito un fattore cruciale ai fini della pace sociale, sia interna ai Paesi sia nelle relazioni tra Paesi diversi [6]. D’altro canto la negazione dell’accesso al cibo quale diritto umano fondamentale è uno degli aspetti chiave nel manifestarsi o esacerbarsi di instabilità politica, insurrezioni e conflitti. Infatti, come è facilmente intuibile e documentato nel seguito, condizioni protratte di violenza politica su di una popolazione hanno un impatto profondo sulle quattro dimensioni della sicurezza alimentare (food security) – disponibilità, accesso, utilizzazione e stabilità – ma anche sulla sanità pubblica di un Paese – morbilità e mortalità – sui servizi sanitari e sull’ambiente circostante.
Sono disponibili vari sistemi di database e software per l’early warning (allerta tempestiva) della condizione di insicurezza alimentare dei Paesi, come FAO GIEWS, US FEWS NET e WFP mVAM. Tutti questi strumenti combinano informazioni geografiche e satellitari con informazioni dal campo al fine di stabilire la sicurezza alimentare di un Paese attraverso una scala di classificazione (Integrated Phase of Classification – IPC), indirizzando di conseguenza il supporto strategico e il coordinamento nella priorità di risposta di un intervento, in termini di assistenza alimentare, sanitaria e civile. Come mostra la Figura 2, le Fasi di classificazione IPC sono 5 e vanno dalla condizione di sicurezza alimentare generale, alla crisi alimentare acuta, fino nei casi più gravi alla carestia/catastrofe umanitaria (Fase 5).
Al contrario delle fonti internazionali, la legislazione europea non definisce ancora il diritto all’alimentazione inteso come diritto al cibo adeguato (right to adequate food), mentre definisce il diritto dell’alimentazione con l’insieme di leggi e regolamenti sulla sicurezza degli alimenti per tutelare la salute umana e gli interessi dei consumatori nei Paesi dell’Unione Europea in fase di produzione, trasformazione, distribuzione commercializzazione e consumo (food law). Anche in Italia non esiste una autonoma formulazione costituzionale del diritto al cibo ‘adeguato’, tanto che l’approvazione della Carta di Milano durante l’esposizione universale (Expo) del 2015, richiama la marcata necessità di introdurre previsioni normative innovative che, direttamente o indirettamente, si prefiggano di fornire tutela, garantire e rendere effettivo il diritto al cibo [7].
La ‘violenza politica’ e la sicurezza alimentare: due facce della stessa medaglia?
La relazione bidirezionale tra violenza politica e insicurezza alimentare, rappresentata graficamente in Fig.3, può costituire un ciclo che si autoalimenta, innescandosi da uno dei due poli. Ogni violenza politica, sia essa causa o effetto, mina i diritti fondamentali dell’uomo con massiva perdita degli aspetti basilari di una società civile, soprattutto quando degenera in repressione e conflitti armati. Come fenomeno multi-dimensionale, la sicurezza alimentare è, infatti, uno dei primi settori ad essere direttamente affetto in caso di violenza politica e conseguente conflitto armato. Quale faccia della stessa medaglia, la condizione di insicurezza alimentare può essere a sua volta una delle cause scatenanti o inasprenti dei fenomeni di violenza politica.
I Paesi caratterizzati dalla violenza politica mostrano elevati livelli di insicurezza alimentare, sia a livello acuto che cronico. Le ragioni sono diverse: in un contesto di instabilità, intervengono vari rallentamenti e disagi sulla produzione di cibo fino, nei casi più gravi, al venire completamente interrotte la sua produzione a causa della distruzione o al saccheggio dei terreni coltivabili, e lo stoccaggio delle riserve di derrate alimentari. In questo scenario, gli investimenti economici sono scoraggiati, l’occupazione è soppressa, gli scambi commerciali sono interrotti e il capitale umano viene annientato. Tutte queste condizioni fanno aumentare il prezzo del cibo, sia a livello dei mercati nazionali sia di quelli internazionali [8].
Ad esempio, il conflitto in Yemen iniziato nel 2015 ha generato un crollo del sistema produttivo, con più del 90% dei prodotti alimentari che attualmente devono essere importati nel Paese. Il tasso annuale di inflazione è cresciuto di circa il 30%, portando ad un aumento dei prezzi dei beni primari del 70% al di sopra dei livelli pre-crisi. La maggior parte della popolazione non riesce così più a soddisfare le proprie necessità alimentari giornaliere, a causa sia dell’aumento del prezzo del cibo sia della sua scarsità. Queste condizioni possono perdurare anche a lungo, soprattutto se il conflitto armato non è di rapida risoluzione. Lo scenario diviene quanto mai compromesso e desolante: l’ambiente è stato distrutto, l’economia depredata, l’accesso ai servizi basilari ridotto in frantumi, le persone uccise o quelle sopravvissute sono dovute fuggire e si trovano dislocate in altri territori nel tentativo di cercare altrove riparo e salvezza. E’ alquanto improbabile che la sicurezza alimentare migliori fino a che la violenza politica e il conflitto non si siano risolti.
Come secondo esempio si pensi alla Siria: prima dell’inizio della guerra civile del 2011 la Siria era uno dei Paesi della sua area con maggiore produzione agricola (uno tra i più importanti esportatori di grano, con una produzione annuale di circa 4 milioni di tonnellate, di cui 2,5 milioni per il consumo interno e 1,5 milioni per l’esportazione). Otto anni di conflitto hanno profondamente sovvertito il quadro: la produzione all’interno del Paese si è ridotta di più di un terzo ed è in continuo declino a causa della distruzione di infrastrutture e materiale vitali per tale attività quali canali irrigazione, elettricità, impoverimento e sottrazione dei terreni, tanto che la Siria è diventata dipendente dalle importazioni di cibo [9]. In aggiunta a tale devastazione, il conflitto armato impatta direttamente l’accesso e la copertura dei servizi sanitari, portando ad un aumento del rischio di minacce biologiche, come le malattie infettive e le epidemie, a cui la popolazione risulta esposta, soprattutto in campi affollati e con scarse condizioni igieniche [10]. Tali condizioni divengono un pericolo anche per i Paesi limitrofi. Nel 2017 molti dei Paesi con conflitti interni hanno conosciuto epidemie di colera, come lo Yemen, la Repubblica Democratica del Congo, il Sud Sudan, lo Stato di Borno in Nigeria, la Somalia, con conseguente aumento del numero di persone in insicurezza alimentare e malnutrizione [11].
Ad esempio, in Yemen la distruzione diretta e accidentale di ospedali, di cliniche, degli impianti di distribuzione dell’acqua e delle strutture fognarie ha causato nel 2017 la più grande epidemia di colera a livello mondiale, con oltre 800.000 casi sospetti complessivi, fino a 5.000 nuove infezioni al giorno nei periodi di punta dell’epidemia, per un totale di oltre 2000 morti in un anno.
D’altro canto, condizioni quali la povertà e la difficoltà di accesso alle risorse alimentari hanno sempre rappresentato in maniera significativa fattori di rischio per l’insorgenza di conflitti, soprattutto sotto forma di guerre civili interne ai singoli Paesi, dove spesso la scarsità di cibo, di acqua e di risorse naturali si associa a una congenita instabilità socio-economica di fondo. Le crisi alimentari protratte, inasprite spesso da condizioni climatiche sfavorevoli o eccessiva povertà durante la quale la popolazione diventa vulnerabile alla fame e alle epidemie, hanno una elevata probabilità di generare ed esasperare i diversi fenomeni di violenza politica. Spesso sono proprio eventi acuti di insicurezza alimentare a fare da trigger (innesco) a scontri armati e conflitti.
Possiamo trovare vari esempi nella storia recente: nel 2011 la Primavera Araba che rovesciò i governi di Tunisia, Egitto e Libia, ebbe tra i vari fattori motivanti il rialzo dei prezzi di cibi di primaria importanza (zucchero, olio, farina). La protesta in Tunisia, che segnò l’avvio dell’effetto domino nella Primavera Araba, ebbe inizio con le dimostrazioni contro l’elevato prezzo del pane.
Un altro esempio viene dalle crisi ricorrenti del Corno d’Africa (Somalia, Eritrea, Etiopia, Kenya e Gibuti, mentre Sudan e Kenya vi sono spesso compresi per affinità storico-culturali): avversi eventi climatici hanno negli anni complicato la già critica condizione di insicurezza alimentare e oppressione politica della popolazione, innescando un conflitto civile intermittente nel 1970, 1980, 1990, fino alla sconcertante crisi del 2011 quando, la peggiore siccità degli ultimi 60 anni unita ad una perversa miscela di aumento dei prezzi dei prodotti alimentari a livello mondiale e carestia nella regione, portarono ad una sua nuova ondata di violenza politica, con più di 13 milioni di esodi forzati verso campi profughi allestiti soprattutto lungo il confine con l’Etiopia e il Kenya [12].
In senso più lato, il cibo può essere strumentalizzato per influenzare a proprio vantaggio l’andamento dei conflitti: la ‘guerra del cibo’ è un concetto che include l’utilizzo della ‘fame’ come arma per protrarre i conflitti. Ad esempio, i regimi totalitari dalla Prima Guerra mondiale alla Guerra fredda, utilizzavano ‘l’affamamento’ della popolazione come arma di sottomissione [8]. Il Protocollo Aggiuntivo alle Convenzioni di Ginevra del 1949 entrato in vigore nel 1978, relativo alla protezione delle vittime dei conflitti armati non internazionali, all’art.14 sancisce che ‘è vietato, come metodo di guerra, far soffrire la fame alle persone civili. Di conseguenza, è vietato attaccare, distruggere, asportare o mettere fuori uso, con tale scopo, beni indispensabili alla sopravvivenza della popolazione civile, quali le derrate alimentari e le zone agricole che le producono, i raccolti, il bestiame, le installazioni e le riserve di acqua potabile, e le opere di irrigazione’. Tuttavia, il cibo è ancora spesso utilizzato come arma contro la popolazione. In Etiopia nel 1980 l’affamamento di una parte della popolazione fu una deliberata decisione politica per piegare l’opposizione, utilizzando gli aiuti di cibo selettivamente come arma per reclutare seguaci e affamare il resto della popolazione [13]. Più recentemente, organizzazioni terroristiche come Al-Qaeda hanno utilizzato l’insicurezza alimentare per reclutare e promuovere i loro obiettivi politici, mentre in Iraq nel 2016 la produzione dei cereali era sotto il diretto controllo delle forze ribelli, intaccando l’accesso alle varie attività dell’agricoltura, dalle fasi di piantagione al raccolto.
Attualmente, la FAO ha identificato 19 Paesi in condizione protratta di conflitti, violenza, crisi umanitaria ed alimentare, con 14 di essi risultanti in quest’ultima categoria dal 2010, 11 dei quali sono in Africa [14]. In tali Paesi dell’Africa sono state calcolate 37 milioni di persone in condizione di insicurezza alimentare acuta; il numero più grande nel nord della Nigeria, nella Repubblica Democratica del Congo, in Somalia e Sud Sudan. La violenza politica è la causa sostanziale della maggior parte delle crisi di lunga durata, crisi spesso esasperate dalle avverse condizioni climatiche, come la prolungata siccità che affligge severamente la produzione di cibo e di beni primari di sostentamento.
Violenza politica, insicurezza alimentare e flussi migratori
In generale, sulle migrazioni si può facilmente dedurre che quando l’accesso alle risorse primarie di un Paese (acqua, cibo, terra) vengono lese, ristrette o compromesse, le popolazioni iniziano a migrare in cerca di stabilità ed ambienti più sicuri. Difatti, in molte regioni povere del mondo, l’insicurezza alimentare come causa o effetto di violenza politica e conflitti, aggravata soprattutto in Africa da disastri ambientali e climatici, spinge centinaia di migliaia di persone ad abbandonare i loro Paesi, rischiando la loro vita per arrivare in posti più sicuri: la migrazione, dunque, diviene spesso la sola via percorribile per sopravvivere.
In generale, dai dati aggiornati dell’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati (UNHCR) alla fine del 2017 (Fig.4) si evince che 71,44 milioni di persone in tutto il mondo, un numero senza precedenti ed aumentato del 5,4% rispetto al 2016, sono state costrette a fuggire dal proprio Paese per ragioni diverse, quali conflitti, persecuzioni e insicurezza alimentare. Di queste, circa 20 milioni sono riconosciute come rifugiati, con più della metà di età inferiore ai 18 anni. Inoltre, più di 3 milioni di persone sono richiedenti asilo; circa altre 4 milioni di persone sono apolidi (stateless- non riconosciuti come cittadini di alcuno stato), cioè persone alle quali è stata negata una nazionalità e l’accesso a diritti fondamentali quali istruzione, salute, lavoro e libertà di movimento. Infine, la maggior parte – circa 40 milioni – sono le IDPs, persone che, pur se fuggite, trovano all’interno del proprio Stato un nuovo territorio da abitare [15].
Attualmente la maggior parte dei rifugiati proviene da Afghanistan, Somalia, Sud Sudan, Sudan e Siria. Come mostra la figura 4, queste persone si trovano dislocate soprattutto in Africa (24,2 milioni), Medio Oriente e Nord Africa (16,8 milioni), seguite da Europa (11 milioni, con un numero di persone richiedenti asilo calato nell’ultimo periodo del 49%), America (9,9 milioni soprattutto nel Centro-Nord ed America Latina), Asia (9,5 milioni). Nel 2017, in Italia si sono registrati quasi 120 mila arrivi attraverso il Mar Mediterraneo, di cui quasi 16 mila bambini non accompagnati o separati dai genitori; più di 11 mila persone richiedenti asilo sono state ridistribuite in altri Paesi dell’Unione Europea durante l’anno. Si calcola che le IDPs trascorrano in media più di 17 anni in campi di accoglienza o nelle comunità ospitanti [16]. L’UNHCR stima di avere bisogno di 7.9 miliardi di dollari per rispondere a questa emergenza.
Le persone che fuggono dai loro Paesi diventano direttamente dipendenti dagli aiuti umanitari e sicuramente più esposte ad insicurezza alimentare (food insecurity), malattie infettive ed epidemie, per di più quando sono rifugiate in campi di accoglienza, luoghi che rischiano ben presto di diventare sovraffollati. Gestire e prevenire tali eventi è più che mai complicato: infatti quando queste persone si trovano affollate in campi profughi o centri di accoglienza l’impatto può essere devastante. Ne è un triste esempio l’epidemia di colera nel 1994 in Rwanda a seguito del genocidio: 48.000 casi e 23.800 morti in un mese nei campi per rifugiati di Goma, in Congo.
Per quel che riguarda l’Italia, nelle Osservazioni conclusive della Commissione dei Diritti Umani del 2006 relative alla condizione di accesso al cibo dell’elevato numero di rifugiati e ospiti dei centri di prima accoglienza di Lampedusa, si leggeva: ‘… it -the Committee- is further concerned about information that detention conditions in this centre are unsatisfactory in terms of overcrowding, hygiene, food and medical care, that some migrants have undergone ill-treatment, and about the fact that regular independent inspections do not seem to be carried’ (la Commissione è ulteriormente preoccupata dell’informazione che le condizioni di detenzione in questo centro non siano soddisfacenti in termini di sovraffollamento, igiene, sostegno alimentare e medico, che alcuni migranti abbiano subito maltrattamenti, e che le abituali ispezioni indipendenti non sembrano essere condotte).
Sebbene sul fronte del diritto al cibo sia stato calcolato che nel 2017 circa 124 milioni di persone in 51 Paesi e territori abbiano dovuto affrontare livelli critici di insicurezza alimentare acuta [11], stimare con esattezza il numero dei soli ‘rifugiati dalla fame’ (in inglese refugees from hunger), intesi come coloro che non emigrano volontariamente ma perché in stato di necessità per sfuggire a situazioni di carestia grave e quindi per migliorare le loro condizioni di vita [17], non è affatto semplice.
I ‘rifugiati dalla fame’ al momento non godono di alcuno stato di rifugiato e pertanto neanche del diritto di non-refoulement (principio di non-respingimento) in base al quale “nessuno Stato potrà espellere o respingere un rifugiato verso le frontiere dei luoghi ove la sua vita o la sua libertà sarebbero minacciate a causa della sua razza, della sua religione, della sua nazionalità, della sua appartenenza ad una determinata categoria sociale o delle sue opinioni politiche” (art. 33 Convenzione di Ginevra sullo status di rifugiati del 1951). Nonostante la loro vita sia quindi minacciata dall’insufficienza di cibo, i ‘rifugiati dalla fame’ non si trovano in alcuna situazione assimilabile a quella prevista dall’art.33. Il Forum Sociale Mondiale sulle Migrazioni del 2006 (World Social Forum on Migration) ha focalizzato l’attenzione su tale problema, domandando se questi migranti che scappano da fame e insicurezza alimentare cronica possano essere considerati ‘migranti volontari’ o piuttosto vittime di criminalizzazione. Ciononostante, tali persone rischiano di non essere tutelate fino ad essere rimandate nei loro Paesi di origine e, dunque, riesposte alla stessa condizione allarmante. Il punto è quanto mai cruciale ed è particolarmente dibattuto in ambito internazionale: i ‘rifugiati dalla fame’ non dovrebbero essere confusi con i ‘migranti economici’ – intendendo con quest’ultima categoria coloro che migrano in un altro Paese in cerca di migliori condizioni di vita pur avendo assicurato il diritto al cibo – ma si dovrebbe prevedere per loro una categoria ad hoc, assicurandogli una miglior tutela e maggiore considerazione a livello internazionale [18].
Considerazioni conclusive
Violenza politica ed insicurezza alimentare creano un circolo vizioso che inasprisce i flussi migratori e gettano le basi per estremismi e terrorismo: ‘Hunger anywhere threatens peace everywhere’ (la fame in qualsiasi luogo minaccia la pace ovunque) [19]. Pur essendo la questione quanto mai complessa e di difficile esemplificazione, tale intrinseco legame viene spesso sottostimato o affatto preso in considerazione. Sebbene ci siano ancora limitate conoscenze sul ruolo che la sicurezza alimentare possa giocare nel prevenire e mitigare la violenza politica, non c’è dubbio che un ambiente politicamente ed economicamente stabile è condizione fondamentale per assicurare con continuità la sicurezza alimentare. L’aggravarsi delle crisi alimentari in Paesi come Somalia, Pakistan, Siria, Nigeria, Iraq, Libia, Libano, Egitto ed il conseguente aumento del numero di persone che si trovano a livelli critici di insicurezza alimentare, sta facendo aumentare il rischio di conflitti protratti, instabilità politica e migrazioni, sia a livello locale sia per tutti gli altri Stati. E’, senza dubbio, questo tema dei flussi migratori una delle maggiori preoccupazioni nella politica mondiale attuale.
Sconfiggere la fame nel mondo e garantire la sicurezza alimentare, come Obiettivi di Sviluppo Sostenibile (Sustainable Development Goals) da raggiungere entro il 2030 [20], non sono dunque da considerare solo come un impegno morale della comunità internazionale, ma possono avere un fondamentale impatto sulla stabilità e sulla sicurezza politica ed economica del Paese che ne è affetto e, spesso, sugli equilibri mondiali.
Glossario
- FAO – Food and Agricultural Organization
- FEWS NET – Famine Early Warning System Network
- IDPs – Internally Displaced Persons (persone dislocate internamente)
- IPC – Integrated Phase of Classification
- UNHCR – United Nations High Commission for Refugees
- WFP – World Food Programme
Bibliografia e sitografia
[1] United Nations Human Right website. Questions and answers about IDPs, Office of the High Commissioner. https://www.ohchr.org/en/issues/idpersons/pages/issues.aspx
[2] Carbonelli, M., ‘Violenza politica, terrorismo ed eversione: è necessario un inquadramento sistemico?’, Safety & Security Magazine, 8 maggio 2018, https://www.safetysecuritymagazine.com/articoli/violenza-politica-terrorismo-ed-eversione-e-necessario-un-inquadramento-sistemico/
[3] Carbonelli, M., ‘Terrorismo: dalle definizioni internazionali alle condotte di reato’, Safety & Security Magazine, 30 marzo 2018, https://www.safetysecuritymagazine.com/articoli/terrorismo-dalle-definizioni-internazionali-alle-condotte-di-reato/
[4] FAO. The State of Food Insecurity in the World 2001. Rome, Italy. http://www.fao.org/docrep/005/y7352e/y7352e00.htm.
[5] Nazioni Unite. Dichiarazione Universale dei Diritti Umani (Dudu), 1948. https://www.ohchr.org/EN/UDHR/Documents/UDHR_Translations/itn.pdf
[6] Barilla Center for Food and Nutrition, 2011. “Accesso al cibo: sfide e prospettive”, https://www.barillacfn.com/m/publications/pp-accesso.pdf2011
[7] Carta di Milano, 2015. http://carta.milano.it/la-carta-di-milano/
[8] Messer, E., Cohen M.J., & Marchione, T. Conflict: A Cause and Effect of Hunger. In Environmental Change and Security Program, Report #7, ed. G.D. Dabelko. Washington DC, Woodrow Wilson Center, pp. 1–20, 2002
[9] Future Directions International (2016), The Future Beyond Conflict: Wood and Water Security in Syria, http://www.futuredirections.org.au/publication/futurebeyond-conflict-food-water-security-syria/
[10] Brinkman, H.J., & Hendrix, C.S. (2011). Food Insecurity and Violent Conflict: Causes, Consequences, and Addressing the Challenges. WFP 2011. https://ucanr.edu/blogs/food2025/blogfiles/14415.pdf.
[11] Food Security Information Network, FSIN. Global report on food crisis, 2018, https://docs.wfp.org/api/documents/WFP-0000069227/download/?_ga=2.178627425.434236003.1526229746-1703329497.1526229746
[12] Zupi, M., La crisi del Corno d’Africa. Osservatorio di politica Internazionale, 2011, http://www.parlamento.it/application/xmanager/projects/parlamento/file/repository/affariinternazionali/osservatorio/approfondimenti/PI0043App.pdf
[13] Clay, J., Steingraber, S., & Niggli, P. The spoils of famine: Ethiopian famine policy and peasant agriculture. Cambridge, MA: Cultural Survival, 1988
[14] FAO, IFAD, UNICEF, WFP, WHO. The State of Food Security and Nutrition in the World 2017. Building resilience for peace and food security. Rome, FAO, http://www.fao.org/3/a-I7695e.pdf
[15] Alto Commissariato per i Rifugiati delle Nazioni Unite (UNHCR). Global Report 2017. http://reporting.unhcr.org/sites/default/files/gr2017/pdf/GR2017_English_Full_lowres.pdf
[16] Von Grebmer, K., Bernstein, J., de Waal, A., Prasai, N., Yin, S., & Yohannes, Y. Global Hunger Index: Armed conflict and the challenge of hunger. Bonn, Germany; Washington, DC, USA and Dublin, Ireland: WeltHungerHilfe; International Food Policy Research Institute (IFPRI) and Concern Worldwide, 2015
[17] Ziegler et al. The Fight for the right to food. Lesson Learned, 2011. DOI 10.1057/9780230299337
[18] Human Right Council 2007. IMPLEMENTATION OF GENERAL ASSEMBLY RESOLUTION 60/251 OF 15 MARCH 2006 ENTITLED “HUMAN RIGHTS COUNCIL” Report of the Special Rapporteur on the right to food, Jean Ziegler. http://www.righttofood.org/wp-content/uploads/2012/09/AHRC430.pdf
[19] Swaminathan, M.S. (1994). Uncommon opportunities: an agenda for peace and equitable development. Report of the International Commission on Peace and Food, London
[20] UN Sustainable Development Goals: Goal 2, https://sustainabledevelopment.un.org/sdg2
A cura di: Stefania Moramarco e Marco Carbonelli