The Medium is The War
Più di cinquant’anni fa Marshall McLuhan, il profeta del villaggio globale, teorico della comunicazione affermava: “Senza comunicazione non ci sarebbe il terrorismo”.
Quando McLuhan esprimeva questi pensieri, Internet non esisteva ancora e nemmeno le grandi reti come la CNN.
Il network globale di informazione era in una fase embrionale rispetto ad oggi, eppure era già chiara la forza della voce e del silenzio dei media e la sua logica nella sfera pubblica, nel racconto della realtà quotidiana, soprattutto dei fenomeni violenti e criminali.
La maggior parte del mondo accademico, e non solo, ri-conosce il sociologo canadese per la famosa espressione “il mezzo è il messaggio”. I media elettronici e digitali hanno fortemente modificato la nostra cultura, favorendo il ritorno dell’oralità e influenzando tempo, spazio e contenuti dei processi comunicativi e relazionali.
Questi cambiamenti sono ormai visibili in tutti gli aspetti della vita umana come la scuola, il lavoro, la salute, l’economia, ma anche nelle dinamiche dei conflitti e nella guerra ancora in corso.
John Kirby, il portavoce del dipartimento della Difesa americano, poche settimane prima dell’inizio del nuovo conflitto tra Ucraina e Russia, aveva reso pubbliche alcune informazioni fornite dall’intelligence statunitense che sostenevano il probabile utilizzo di un falso video, da parte della Russia, come pretesto per giustificare l’invasione dell’Ucraina. Tale intenzione sarebbe stata confermata poco dopo al New York Times anche da un funzionario dell’intelligence britannica.
La crisi tra Russia e Ucraina sta mostrando in tutta la sua forza uno dei principi fondamentali dei nuovi cyber-conflitti: il terreno dove lo scontro si vince in anticipo, quello della Rete.
Le campagne disinformative e le ondate di fake-news studiate a tavolino riescono a creare pretesti per generare la scintilla di una guerra ma anche per influenzare e direzionare il sentiment dell’opinione pubblica.
Il punto finora rilevante è racchiuso in due parole che ben descrivono la complessità della situazione appena descritta: misinformation e disinformation.
Riprendendo le parole dello scrittore Toba Beta, “la misinformazione è un inganno. La disinformazione è un imbroglio”.
Misinformazione e disinformazione possono essere entrambi pericolose, ma quest’ultima ha un potenziale molto più “distruttivo”. Ad, esempio può impedire al pubblico dei media di discutere le questioni, influenzando notevolmente le decisioni, secondo tre modalità:
- fornire false informazioni, a volte accoppiate con analisi e dati ingannevoli, rivolte a persone che si trovano a prendere decisioni che sono contrarie ai loro reali desideri o interessi (es. campagne elettorali);
- favorire la polarizzazione, spingendo deliberatamente le persone a adottare opinioni e credenze estreme che non lasciano spazio al compromesso;
- allontanare da tutte le fonti di informazione gli utenti, rendendoli meno informati e meno disposti a partecipare al dibattito pubblico.
Queste tre dimensioni prendono corpo in particolar modo all’interno piattaforme sociali e digitali, capaci ora di profilare i loro utenti, raccogliere informazioni, di carattere personale, dominare gli ambienti politici e internazionali, orientare le strategie militari, incidendo sull’inizio e la fine di un conflitto.
Anche la comunicazione pubblica dei due presidenti protagonisti del conflitto si fa “cyber” e domina le piattaforme online. Ogni messaggio rivolto al proprio popolo o al proprio avversario viene costruito seguendo le logiche dei social media: velocità, trans-medialità e trasparenza. Contenuti chiari, diretti, esposti con tono deciso e autorevole. La stessa attività diplomatica, la forma più complessa di dialogo istituzionale in situazioni di crisi, trova posta questa volta nell’ambiente digitale, precisamente su Instagram, e si rivolge ad un pubblico misto, cittadini e leader di tutto il mondo.
Le tecnologie dell’informazione sono dunque strettamente legate a quelle belliche, si sviluppano in maniera parallela, forniscono nuovi modi di vedere il conflitto che diviene via via una esperienza sempre meno raccontabile e sempre più ermetica.
La cosa però abbastanza inedita all’interno di questa pseudo-guerra, “fredda e ibrida”, sono i cyberattacchi proveniente da “soggetti terzi”, attori cioè che partecipano attivamente allo scontro, senza una chiara identità, muovendosi strategicamente nel retroscena bellico e facendo dell’algoritmo un medium in grado di ferire importanti assetti istituzionali.
È il caso di Anonymous che pochi giorni fa ha dichiarato pubblicamente guerra al governo di Vladimir Putin schierandosi a favore del popolo ucraino.
Il noto movimento decentralizzato di hacktivismo ha fatto il suo inaspettato annuncio sul proprio account Twitter, giovedì 24 febbraio scorso, poco dopo l’inizio dell’azione militare da parte del Cremlino. Anonymous ha rivendicato la responsabilità di aver rimosso i principali siti web del governo russo e di aver preso di mira i canali web della rete televisiva internazionale controllata dallo stato russo RT.
La dimensione “cyber” è dunque centrale in questo conflitto e ha già svolto un ruolo importante nella disputa tra Russia e Ucraina nelle ultime settimane, che ora si è via via trasformata in un conflitto armato, passando in maniera quasi definitiva dallo spazio online a quello urbano.
Ma rimane comunque il mezzo tecnologico a guidare l’ordine delle comunicazioni pubbliche, la dinamica del conflitto e l’intensità dei suoi effetti, facilitando o irrigidendo i negoziati verso la pace.
In questo senso, riprendendo McLuhan e aggiornando la sua famosa espressione, non solo ancora oggi “the medium is the message”, ma potremmo senza dubbio dire che attualmente “The Medium is The War”.
Articolo a cura di Giacomo Buoncompagni
Università di Firenze, membro dell’unità di ricerca del progetto europeo Hideandola - Hidden Anti-Semitism and the Communicative Skills of Criminal Lawyers and Journalists