Suicide Bombing: analisi multifattoriale degli aspetti psicologici e motivazionali correlati al fenomeno
Gli attacchi terroristici che hanno colpito il cuore dell’Europa negli ultimi anni hanno reso concreto nella collettività il senso di insicurezza e paura. I cosiddetti “soft targets”, termine utilizzato dagli addetti ai lavori della sicurezza per indicare quei luoghi a basso livello di interesse strategico, sono gli stessi che negli ultimi anni sono stati maggiormente individuati come obbiettivi per attentati terroristici.
Gli attacchi di Londra, Parigi, Berlino e Milano, quest’ultima teatro dell’epilogo della fuga dell’attentatore Anis Amri, hanno portato i servizi di sicurezza dei vari paesi ad innalzare in modo esponenziale la soglia d’attenzione nei confronti di quei soggetti particolarmente legati al radicalismo religioso. I flussi migratori, che nel corso dei decenni hanno arricchito l’Europa con una molteplicità di etnie e altrettante fedi religiose, hanno reso difficoltoso, se non impossibile, garantire un monitoraggio idoneo a contrastare forme di radicalismo estremo, germe di partenza di potenziali rappresaglie terroristiche nei confronti della modernità occidentale.
Le rivendicazioni degli attentati, nella maggior parte dei casi, sono state puntuali, ponendo frequentemente la religione islamica come erroneo parafulmine motivazionale. Erroneo perché la complessità delle scritture coraniche, i precetti islamici che impongono la rettitudine religiosa nella vita politica e sociale dell’individuo, nonché la mancanza di guide spirituali in grado di fornire interpretazioni corrette dei testi sacri, hanno generato nel grande Islam moderato e pacifico un’infinitesimale parte di individui con una concezione distorta del Jihad, dalla quale i più autorevoli portavoce dell’Islam si dissociano e fermamente condannano.
Il fenomeno degli attentati terroristici condotti per mezzo della strategia estrema dell’omicidio-suicidio, chiamata spesso impropriamente attacco “Kamikaze”, è stato quello utilizzato con maggior frequenza, ciò per motivazioni multifattoriali, le quali abbracciano oltre all’aspetto religioso anche quello storico, sociale, economico e psicologico. Un aspetto che rende complessa e inattendibile la formulazione di un profilo psicologico del potenziale attentatore suicida, si racchiude all’interno di una strategia denominata “Taqiyya” ovvero, nella tradizione islamica, la possibilità di nascondere o addirittura rinnegare esteriormente la fede, di dissimulare l’adesione a un gruppo religioso e di non praticare i riti obbligatori previsti dalla religione islamica. Il fine consiste nel non destare sospetti, simulando un atteggiamento accondiscendente e non antagonista all’interno della società percepita come ostile verso il singolo credente o l’intera comunità.
Da questo ed altri fattori deriva la difficoltà di trarne caratteri significativi che possano far pensare ad una radicalizzazione estrema e, di conseguenza, poterne svolgere un profiling specifico; ogni tentativo di tipizzare il fenomeno dal punto di vista psicopatologico fallisce davanti alla disomogeneità e alla complessità delle situazioni. Presumibilmente, gli elementi comuni al terrorismo suicida vanno ricercati nella storia del gruppo o della famiglia e non nella singola persona. Le situazioni estreme provate dal gruppo, frequentemente non vissute nel paese ospitante ma nella terra natia degli individui deputati al martirio, sono in grado di produrre comportamenti paradossali da un punto di vista individuale; il gruppo di appartenenza rinuncia alla funzione di salvaguardia della vita del singolo, autorizzando alcuni membri a sacrificarsi per la causa. Una comunità in preda ad un costante stato di disperazione pone in atto operazioni difensive destinate a perpetuare il trauma piuttosto che a modificarlo o a trovarne un’alternativa. I traumi che colpiscono la comunità, come ad esempio i conflitti bellici, mettono in crisi per prima cosa l’equilibrio tra i bisogni di salvaguardia del gruppo e la libertà individuale; mentre nelle società occidentali l’individualità è una componente netta e indiscussa, in altre prevalgono quei valori che rafforzano l’omogeneità a discapito dell’individuo.
In alcune comunità particolarmente traumatizzate o guidate da leader fortemente ideologizzati, la via del martirio viene esaltata come unica arma necessaria per la difesa della comunità che, in quel momento, si trova priva di adeguati mezzi di offesa.
Come si può condurre un soggetto ad immolarsi per una causa comune? Rispondere a una domanda di questo tipo, per la cultura occidentale, è molto difficile; tra le tecniche utilizzate per avviare il soggetto designato al martirio, vi è ad esempio quella di fargli perdere il suo carattere di persona, cancellare ogni legame affettivo con il passato e assegnargli un nuovo nome e nuovi indumenti, creando uno stato di isolamento attorno ad esso sino al momento della missione.
Molti studiosi avvalorano la tesi che la vocazione a diventare un martire sia legato al ripetersi di traumi e il disprezzo per la dignità di intere comunità. La natura multifattoriale, complessa ed in continuo mutamento del fenomeno, non consente la formulazione di teorie precise e con basi solide. Sarebbe riduttivo e incompleto affermare che il fenomeno del terrorismo mondiale ha sempre un’origine traumatica; osservando infatti la vita di alcuni leader del terrorismo internazionale, si è appurato che la loro vita non ha avuto nulla a che vedere con la povertà, le persecuzioni o le ingiustizie. Il terrorismo internazionale non si muove sulla base di una ferita traumatica ma è organizzato da un’èlite politica e religiosa, abituata a dominare, la quale teme fortemente l’estinzione della propria ideologia e del proprio potere.
Nonostante il fenomeno del Suicide bombing sia relativamente recente, messo in atto nelle modalità in cui attualmente lo conosciamo, sono stati forniti contributi psicoanalitici sul tema.
Si possono individuare almeno tre classi di fattori individuali relativi all’attentatore suicida: il profilo psicologico, i caratteri socio-demografici ed economici e l’aspetto motivazionale.
Il profilo psicologico
Per quanto riguarda il profilo psicologico, la ricerca scientifica ha mostrato chiaramente come i terroristi solitamente non soffrano di malattie o disordini mentali significativi. Per usare le parole della studiosa Martha Crenshaw, “la straordinaria caratteristica comune dei terroristi è la loro normalità”. Questa regolarità sembra valere anche per gli attentatori suicidi; la grande maggioranza degli aspiranti “martiri” non sembra presentare disturbi psicologici o tendenze suicide, sia nel modello locale sia nel modello transnazionale. Disturbi mentali a parte, la questione dei profili psicologici degli attentatori suicidi è più controversa: la maggioranza degli studiosi ritiene che non esistano profili psicologici tipici, pur sottolineando gli inconvenienti dovuti alla scarsità di biografie individuali di attentatori suicidi disponibili per la ricerca psicologica. Nonostante tutto sono stati indicati la presenza di alcuni tratti della personalità comuni (tra cui la personalità autoritaria) e di una maggior propensione al rischio.
I caratteri socio-demografici ed economici
Ancor più ampio e complicato è il tema dei caratteri socio-demografici ed economici degli attentatori suicidi. Nel modello locale, come nel modello transnazionale, si registra una netta prevalenza di individui in giovane età, tra i 18 e i 30 anni. Peraltro, questo carattere è tipico della grande maggioranza delle persone che si impegnano in attività violente per scopi politici: già Walter Laqueur studioso del fenomeno, nella fortunata ricostruzione storica “The Age of Terrorism” del 1987, dopo aver addirittura negato la possibilità di definire il concetto stesso di terrorismo, sottolineava quanto il dato anagrafico fosse l’unico tratto in comune delle sue varie manifestazioni.
Per quanto riguarda lo status socio-economico, numerose ricerche hanno mostrato che, contrariamente ai convincimenti diffusi, molti attentatori appartengono alle classi medie, hanno elevati livelli di istruzione e godono di una condizione economica soddisfacente. In realtà, i profili sociali degli aspiranti suicidi sono molteplici e possono cambiare profondamente nel tempo, anche a causa delle necessità di adattamento, come ad esempio si è potuto notare nelle strategie di attacco adottate dagli attentatori palestinesi, le quali sono mutate sensibilmente nel corso del tempo per fronteggiare le misure di prevenzione e contrasto israeliane.
L’aspetto motivazionale
Allo stato attuale non si possono schematizzare le motivazioni individuali degli attentatori suicidi, ma si è provato comunque ad indicare tre ordini di idee che generalmente spingono un soggetto ad immolarsi per la causa. Da una parte, la partecipazione ad una attacco suicida assicura alla famiglia del “martire” un significativo sostegno materiale da parte dell’organizzazione responsabile dell’attacco, ove questa fosse presente, attraverso appositi fondi provenienti da donatori esteri. Dall’altra, gli attentatori talvolta possono perseguire l’obiettivo di scongiurare un danno personale ritenuto più grave della propria stessa morte, come l’infamia dovuta a presunte trasgressioni alle norme sociali o al codice morale oppure tradimenti politici, non di rado sotto la pressione della società di riferimento o delle stesse organizzazioni responsabili della violenza.
Essere fedele ad alcuni valori assunti in modo incondizionato appare, naturalmente, come una motivazione più solida. In alcuni casi la principale motivazione che spinge un individuo a diventare un attentatore suicida è il fervore e la lealtà ad una causa politica, come la liberazione della propria patria da un’occupazione militare, la quale viene vissuta dal soggetto attraverso sentimenti di vendetta, di umiliazione, di frustrazione e di vergogna.
La durezza di tale condizione può agevolare l’assunzione di atteggiamenti radicali da parte della comunità sotto occupazione la quale, a sua volta, può condurre all’accettazione o addirittura all’incoraggiamento della pratica estrema degli attacchi suicidi contro la popolazione civile.
Molti studiosi hanno indagato le condizioni culturali e religiose degli attacchi suicidi, sottolineando la rilevanza di una “cultura del martirio”, costituita da una rete di presunti elementi del passato (codici d’onore, riti, miti) i quali vengono rielaborati e adattati, fornendo modelli per l’emulazione e l’ispirazione in combinazione a tecniche moderne.
Come evidenzia lo studioso Domenico Tosini: “Anche la comunità può arrivare a condividere l’idea che la violenza, anche nelle sue forme estreme come le missioni suicide, sia un mezzo adeguato per sconfiggere le forze straniere. Questa convergenza è agevolata qualora l’organizzazione possa vantare qualche merito nella scelta di questa tattica. Una possibilità è che i leader del gruppo abbiano già conseguito qualche successo dovuto alle missioni suicide. […] Il problema è che non tutti i gruppi che usano il terrorismo suicida hanno alle spalle questi successi. In tal caso, una soluzione è richiamare i successi di altri gruppi e giocare questa carta per ottenere l’appoggio della comunità. È questa una forma di apprendimento interorganizzativo, che porta alla diffusione di una tattica che prima era localizzata in una sola regione”.
Lo psichiatra norvegese Sverre Varvin, nel suo scritto “Terrorismo e vittimizzazione: dinamiche individuali e del grande gruppo”, cerca di comprendere i processi mentali del grande gruppo coinvolti nel fenomeno del terrorismo; nel suo elaborato sottolinea l’esperienza della vergogna e della ferita narcisistica come elemento base che spinge a forme di terrorismo, esercitato in particolar modo attraverso attacchi di tipo suicida. Qualora esposti all’umiliazione in un contesto di violenza sociale, si tenderà a vivere la ferita narcisistica come l’elemento basilare che spinge a forme di natura terroristica, in quanto la vendetta viene legittimata dal bisogno di restituire identità e dignità al gruppo.
Un altro aspetto sottolineato dallo studioso Varvin è quello in cui la continua umiliazione inferta ad una comunità favorisca forme di regressione sia dell’individuo che dell’intero gruppo, rimarcando che, al fine di far sviluppare una vera e propria mentalità “terroristica” in grado di evolversi da semplice idea a strada verso il martirio, sia necessario all’interno del gruppo l’emergere di una leadership dal carattere fortemente ideologico.
La giustificazione dell’esercizio di forme di violenza estrema come quella dell’attacco suicida, trae spesso sostegno dalla memoria storica, veritiera o presunta che sia, di sconfitte e umiliazioni subite nel passato dal proprio gruppo.
Lo psichiatra cipriota Vamik Volkan, nell’elaborato dal titolo “Società traumatizzate”, sottolinea il legame tra trauma e terrorismo, evidenziando come nei traumi dovuti a conflitti di natura etnica, nazionale e religiosa, il gruppo colpito regredisca e lo sviluppo della comunità si blocchi. Se le circostanze non permettono alla comunità colpita di dare un senso alla loro umiliazione, a metabolizzare le sue perdite o a trovare una risposta solidale, il senso di vittimizzazione pervaderà l’intero gruppo.
Volkan altresì sostiene che gli adulti appartenenti alla comunità esposta a traumi tendano a depositare la loro rabbia e angoscia nei propri figli, sui quali a loro volta riversano la spinta a tenere in vita il ricordo dell’umiliazione passata dai propri avi; questo effetto può perdurare per anni o secoli sedimentando nell’animo di tanti, con il rischio di far presa tra coloro che posseggono fragilità caratteriali più marcate, con un più alto rischio di provare sentimenti o comportamenti di vendetta.
I punti di vista tra gli studiosi si diversificano e l’approccio al fenomeno percorre strade che spaziano dalla sfera sociale a quella religiosa, passando per un ampio ventaglio multidisciplinare. Un esempio è la teoria dello psicoanalista Werner Bohleber, il quale ritiene che il fanatismo religioso sia un fattore più importante della rabbia e dell’odio, indicando come esempio cardine l’attacco alle torri gemelle, nel quale gli esecutori agirono spinti dal bisogno di salvazione religiosa (le istruzioni trovate nel bagaglio di Mohammed Atta ne sono la riprova).
Nel memoriale rinvenuto, l’egiziano Atta sottolineava in modo marcato la sua radicalità religiosa, fornendo specifiche disposizioni di carattere generale ai suoi familiari come ad esempio “di temere Dio e non lasciarsi distogliere dalla sua via”, sino ad arrivare alle sue volontà personali dopo la morte, “Nè donne incinte, né persone impure devono venire a darmi il loro addio”, per continuare con “Le donne non devono essere presenti alla mia sepoltura, né venire a pregare sulla mia tomba”.
Nella fase di reclutamento e scelta del potenziale “Shaid” vengono individuati soggetti nei quali è già presente una crisi personale di base, in assenza della quale l’opera di manipolazione da parte del reclutatore troverebbe qualche resistenza. Colui che si occupa del reclutamento, dotato solitamente di grande carisma, è in grado di individuare tra i tanti soggetti con i quali si relaziona colui che possiede fragilità e incertezze interiori, svolgendo successivamente su di esso valutazioni per comprendere la strada più idonea a condurlo alla lotta armata e al martirio, spingendolo in una direzione dalla quale spesso non si riesce a far ritorno.
BIBLIOGRAFIA
- Hoffman B., The logic of suicide terrorism, 2003;
- Moghadam A., The roots of terrorism, 2006;
- Tosini D., Terrorismo e antiterrorismo del XXI secolo, 2007;
- Masi F., Trauma, deumanizzazione e distruttività, 2008;
- Merari A., Driven to death – psychological and social aspects of suicide terrorism, 2010;
- Ruccio A. – Scaini S., Esplosivi e security, 2010.
A cura di: Davide Martinez e Stefano Scaini