Ordigni esplosivi ed incendiari improvvisati: nulla da sottovalutare nella considerazione delle evidenze in ambito peritale e forense

Un’esaustiva definizione tecnica e funzionale di “ordigno improvvisato” deve necessariamente tener conto sia dell’aspetto strettamente fisico che di quello correlato al fine ultimo di tale famiglia di armi di natura non convenzionale; è pertanto possibile definirlo quale un insieme assemblato e coordinato di componenti di varia natura il quale, a seguito di un’attivazione causata da un adatto stimolo esterno (sia esso volontario o inconsapevole), può essere funzionale a causare danni fisici sia diretti che indiretti a persone e cose, a modificare volontariamente ed involontariamente (sia direttamente che indirettamente) il comportamento di persone ed organizzazioni, oppure ad interagire a supporto della comunicazione all’interno delle dinamiche relazionali tra gruppi differenti.

L’expertise, relativamente a questo settore, va indubbiamente riconosciuto all’IRA – Irish Republican Army i cui affiliati, a partire dalla fine degli anni ’60 e per oltre un quarto di secolo, non solo impiegarono estensivamente tale tipologia di armamento non convenzionale, ma idearono, testarono e svilupparono tecnicamente ciò che a tutt’oggi ritroviamo quotidianamente negli scenari di conflitto non convenzionale a livello mondiale.

All’interno di un involucro caratterizzato da un oggetto di natura convenzionale e al quale non viene associato alcun rischio dal punto di vista percettivo, sia esso una busta, uno zainetto, un posacenere, un veicolo o l’abbigliamento stesso di una persona, viene occultata una serie di componenti, concatenate tra di loro secondo il principio di causa-effetto, identificata spesso, in modo forse un po’ desueto, col temine “catena incendiva”.

Qualora non ci si trovi di fronte ad un ordigno improvvisato di natura incendiaria (I.I.D. – Improvised Incendiary Device), il quale è generalmente caratterizzato da un innesco a fuoco avente spesso anche una funzione ritardante (come una miccia, uno spezzone di zampirone, un pezzo di tessuto ed altro ancora) e dal materiale energetico infiammabile posto in un contenitore per evitarne la dispersione, trovandosi solitamente allo stato fisico di liquido oppure di gas, l’innesco di un ordigno esplosivo improvvisato (I.E.D. – Improvised Explosive Device) è pressoché quasi sempre di natura elettrica.

In tal caso, il primo anello costituente la cosiddetta catena incendiva consta di una batteria, per quanto più possibile piccola e leggera al fine di poterla facilmente occultare, avente il compito di fornire quanto necessario all’innesco elettrico.

Tale innesco è generalmente costituito da un detonatore elettrico a bassa intensità (ovvero sensibile ad essere attivato da una bassa intensità di corrente) e dai suoi conduttori (tecnicamente detti reofori, di rame e con una sezione variabile tra 0,25 mm e 0,35 mm), i quali saranno in contatto diretto con la sorgente d’energia di cui sopra.

Al detonatore, costituito da un cilindro di alluminio contenente materiale esplodente particolarmente sensibile al calore (limitatamente alla carica primaria), il compito di attivare il materiale energetico (sia esso esplosivo deflagrante o detonante, un composto o una sostanza chimica esplosiva, oppure una sostanza altamente infiammabile), fornendogli quanto necessario ad avviare quella reazione chimica prevalentemente di ossidazione la quale viene chiamata, in virtù delle differenti velocità alle quali può avvenire, con il nome di combustione, deflagrazione o detonazione.

Il fenomeno dell’esplosione, sia essa una deflagrazione di esplosivi a basso potenziale (polveri piriche) o una detonazione di prodotti ad alto potenziale (tipicamente emulsioni, dinamiti, plastici, ANFO o sostanze su matrice cristallina quali la Pentrite – PETN), non è altro che un repentino cambiamento di stato, da solido a gassoso, della sostanza coinvolta (nell’ordine dei decimi e centesimi di secondo): tale trasformazione ha come effetti diretti la generazione di una forte componente aerea di sovrapressione (tipicamente prodotta da esplosivi detonanti e da ingenti volumi di gas compresso) e la produzione di calore il quale, sebbene per un intervallo temporale limitatissimo (centesimi o addirittura millesimi di secondo), raggiunge livelli di temperatura più che ragguardevoli.

È proprio quest’onda di sovrapressione aerea (comunemente chiamata onda d’urto o più tecnicamente air-blast), generata dal fatto che i gas prodotti occupino un volume molto superiore rispetto a quello occupato dall’esplosivo in fase solida (fino a centinaia di volte in più), il motore grazie al quale schegge e frammenti solidi generalmente di metallo o vetro, preventivamente inseriti all’interno dell’ordigno o auto-generatisi dalla frammentazione del contenitore dello stesso, vengono propulsi a 360°, diventando veri e propri proiettili attraverso la loro balistica esterna; tali proiezioni, conosciuti anche col nome di shrapnels in onore di Sir Henry Shrapnel (Tenente Colonnello d’Artiglieria britannico il quale per primo studiò la balistica esterna di un frammento solido proiettato da un evento esplosivo), sebbene prive di forme coerenti, ovvero di geometrie ottimizzate, sono in grado comunque di garantire notevoli caratteristiche di penetrazione e di letalità in virtù dell’elevatissima energia cinetica contenuta in esse.

L’attivazione dell’ordigno improvvisato, come già accennato in precedenza e qualora non intervengano problematiche di natura tecnica a causarne un’esplosione prematura, avviene sempre a seguito di un’attivazione causata da un adatto stimolo esterno di natura volontaria o inconsapevole; è infatti chiamato switch d’innesco quel componente che, generalmente frapposto tra la batteria e il detonatore elettrico lungo la linea dei conduttori (reofori), ha il compito di chiudere il circuito elettrico alimentato ed inizialmente aperto.

Tale azione può avvenire a seguito delle più svariate cause di interazione con esso e, tra le più comuni, ritroviamo ad esempio: la variazione di quota o pressione atmosferica qualora si tratti di un altimetro, il raggiungimento di un determinato valore numerico nel caso sia un orologio o comunque un timer, l’esposizione alla luce naturale o artificiale nel caso di un luxmetro (sensore di luce), a seguito di pressione meccanica o sottrazione di essa, contatto o separazione di contatto e altro ancora.

Nell’interazione fisica con lo scenario post-esplosione è indubbio come sia fondamentale, al fine di poter eseguire una perizia utile a delineare sia tecnicamente che funzionalmente l’ordigno, nonché ad identificarne la cosiddetta fingerprint (ovvero la sua riconduzione ad una determinata organizzazione criminale o terroristica), la raccolta, l’analisi e la conseguente repertazione di tutte le evidenze, fisiche e non, relative all’evento esplosivo avvenuto.

La ricerca, il prelevamento e l’analisi di ogni singolo frammento riconducibile a sostanze ed oggetti componenti la cosiddetta catena incendiva, sono attività contraddistinte da ben precise procedure, condotte da personale altamente specializzato e, spesso, standardizzate a protocolli e guidelines già ampiamente validate.

Nel considerare le evidenze prelevate, nonché i dati ad esse afferenti, è necessario non sottovalutare alcun aspetto, estendendo l’osservazione, la ricerca e la valutazione anche a particolari solo apparentemente secondari e scarsamente importanti; è palese il riferimento alle componenti “non attive” della catena incendiva dell’ordigno, quali ad esempio rivestimenti cartacei, simboli e grafie su di essi, sigilli, legature, adesivi e qualsivoglia altro particolare.

In particolare, i nastri adesivi, isolanti e non, sono elementi fisici ampiamente utilizzati per assemblare e confezionare ordigni esplosivi improvvisati; rispettivamente impiegati per connettere ed isolare conduttori elettrici e switches d’innesco, nonché per implementare il livello di occultamento di alcuni particolari dell’ordigno, sono spesso sottoposti ai tecnici di laboratorio per analisi di natura comparativa.

L’impiego non validato né standardizzato di svariate applicazioni e tecniche analitiche, nonché la difficoltà di identificare procedure capaci di discriminare i reperti con un livello di affidabilità sostenibile, ha spinto l’Unità di analisi chimiche di laboratorio dell’F.B.I. ad approfondire la tematica, affrontando quindi l’argomento dell’analisi con metodi standardizzati del nastro adesivo isolante cosiddetto “da elettricista”.

La più ovvia caratteristica fisica visibile di un nastro adesivo di tale natura è senza alcun dubbio il colore del fondo o substrato; la categoria del nero, cioè il maggiormente conosciuto e diffuso nonostante sia prodotto e venduto su scala globale nei più svariati colori, si differenzia già al proprio interno per il grado di lucentezza, il quale può variare da spento o attenuato, a opacizzato, ad altamente lucido.

Da un’ispezione maggiormente accurata, è possibile addirittura notare come, all’interno del medesimo processo produttivo, possano variare le caratteristiche di trama della superficie dello stesso prodotto, complicando oltremodo la sua riconducibilità in ambito forense a prodotti già tipizzati; inoltre, sebbene siano disponibili sul mercato in un’ampia gamma di misure in larghezza, quella pari a 19 mm risulta essere la maggiormente impiegata e preferita mentre, per quanto riguarda lo spessore, esso può variare, e non di rado rappresenta l’unica differenza tra differenti nastri del medesimo produttore.

Oltre all’osservazione e alla misurazione delle caratteristiche fisiche del prodotto, è possibile valutarne la composizione chimica, sia per quanto riguarda la componente adesiva che il layer di fondo o substrato; quest’ultimo è generalmente composto da polimero, plasticizzante, materiale di riempimento, pigmenti, ritardanti di fiamma, stabilizzanti e lubrificanti.

Il polimero maggiormente utilizzato è il cloruro di polivinile, ovvero PVC, ma possono venir impiegate altre sostanze quali, ad esempio, poliestere e poliammide; per ammorbidire il film di PVC, altrimenti rigido, vengono usati plasticizzanti come DEHP e fosfati e, poiché essi tendono a migrare dal substrato alla componente adesiva, è spesso necessario predisporre uno strato isolante di polimetilacrilato.

Materiali di riempimento quali, ad esempio, biossido di titanio, carbonato di calcio, solfato di bario, caolino e talco, vengono utilizzati per ridurre i costi di produzione; inoltre, nonostante il PVC non bruci, la presenza di plasticizzanti i quali potrebbero favorire la combustione del substrato, suggerisce ai produttori l’impiego di cosiddetti ritardanti di fiamma (alogeni organici e composti del fosforo).

Infine, gli stabilizzanti, funzionali a prevenire la decomposizione del prodotto nonché la sua degradazione a causa dell’esposizione ai raggi ultravioletti; è bene ricordare come tutti i succitati additivi non debbano necessariamente esser presenti in ogni prodotto, e che spesso si trovano in percentuali inferiori alle soglie di rilevamento di varie tecniche di analisi frequentemente impiegate.

La maggior parte delle tecniche di analisi chimica dei nastri adesivi coinvolgono almeno un paio delle seguenti metodologie: Spettroscopia IR, Spettroscopia EDS (energy-dispersive), e Pirolisi congiuntamente a Gas-cromatografia o Spettroscopia di massa.

La combinazione di diverse tecniche d’indagine chimica permette il riconoscimento di composti di varia natura all’interno di tali prodotti assolutamente dual use: la Spettroscopia EDS risulta valida per le sostanze inorganiche, la Pirolisi per i composti organici, mentre la Spettroscopia IR sia per le une che per gli altri.

La misurazione e l’analisi di tutte queste caratteristiche ha portato l’Unità dedicata dell’F.B.I. a classificare un centinaio circa di prodotti solo in apparenza simili tra loro e, impiegando congiuntamente le tecniche di osservazione fisica alle analisi chimiche di laboratorio, è stata raggiunta una percentuale di cosiddetta “confidenza di comparazione” pari all’85%; ciò, rappresenta indubbiamente un risultato di assoluto rilievo, soprattutto alla luce del data base generato da tale studio, da considerarsi uno strumento di formidabile efficacia a disposizione di tutti gli operatori coinvolti in attività di matrice peritale ed analisi forense.

 

Articolo a cura di Claudia Petrosini e Stefano Scaini

Profilo Autore

La Dott.ssa Claudia Petrosini è specializzata nel settore della Difesa CBRN. Nel 2015 ha conseguito un Master in studi strategici e sicurezza internazionale presso l’Università Ca’ Foscari di Venezia e nel novembre 2016, con una tesi dal titolo “Infrastrutture critiche italiane: pervenire ad una mappatura territoriale dei rischi CBRN”, ha conseguito il Master in protezione strategica del sistema Paese presso la SIOI - Società Italiana per l’Organizzazione Internazionale. Nel 2019 ha frequentato, presso l’ICTP - International Centre for Theoretical Physics, la Joint ICTP-IAEA International School on Nuclear Security. E’ coautrice del volume dal titolo "Terrorismo e Soft-target" (EPC Editore – 2020) nonché di numerose e riconosciute pubblicazioni tecnico-scientifiche in campo nazionale.

Profilo Autore

Stefano Scaini opera nei settori Security e Safety dal 1993 fornendo servizi, consulenze e contributi didattici in merito a sicurezza, tecnologie ed applicazioni sia civili che militari, con particolare riferimento agli aspetti dual-use e quanto afferente ai settori Sicurezza, Protezione e Difesa di assets critici. Certificato Professionista della Security di III livello - Senior Security Manager in conformità alla norma UNI 10459:2017, è altresì certificato con merito al livello AMBCI presso The Business Continuity Institute. Certificato P.F.S.O., C.S.E., R.S.P.P., Covid Manager, Tecnico Ambientale e Coordinatore 257/'92, è in possesso dal 1996 dell'idoneità tecnica all’impiego di materiali esplodenti (ai sensi dell’Art. 27 del D.P.R. n°302/'56) ed iscritto al Ruolo dei Periti e degli Esperti della CCIAA di Parma nella Categoria CHIMICA-Esplosivi.

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