L’Impatto Privacy dei Sistemi di Videosorveglianza nelle Attività di Pubblica Sicurezza, Sicurezza Urbana, Sicurezza Privata

Sicurezza e privacy. La videosorveglianza applicata alle attività di polizia.

Come sempre accade, dopo ogni azione criminale, tornano alla ribalta, puntuali, i problemi della sicurezza; esempio ne sono, purtroppo, gli attentati di Barcellona, Berlino, e in ultimo il crimine efferato di Rimini! Ma è davvero possibile presagire (indovinare?!), anticipare, impedire un attacco di matrice terroristica, o criminale che fosse, grazie alle moderne (big data, videosorveglianza, video analisi) tecnologie?

Le innovazioni informatiche (software+algoritmi) sommate alle moderne tecnologie video (sensori megapixel) possono contribuire alla redazione di modelli predittivi la cui potenzialità, però, è fortemente condizionata da fenomeni come l’imprevedibilità comportamentale, da fattori estemporanei nelle azioni criminogene, che palesemente possono sfuggire anche ai più performanti software, ai più potenti algoritmi di calcolo. Per contro, però, sistemi tecnologici (biometria, videosorveglianza, etc) e informatica (software) possono diventare un binomio vincente, un prezioso ingrediente nelle attività di osservazione, prevenzione, intercettazione di talune fenomenologie; e proprio i flussi video (feed video), dati tipici dei sistemi di videosorveglianza, possono rappresentare una grossa opportunità per delineare una attendibile identità elettronica dei singoli soggetti classificati a rischio.

Ma la raccolta, e la successiva aggregazione tra loro, di disomogenee informazioni (video, biometriche) crea anche inevitabili problemi nella sfera dell’impatto privacy, e del relativo trattamento dei dati personali; ma anche problemi pratici e tecnici nell’utilizzo di ciò che viene acquisito sul campo. In particolare, per la videosorveglianza, si dovrebbe applicare un semplice teorema secondo il quale le informazioni video per fini di sicurezza andrebbero raccolte in maniera più ragionata, e non troppe, tutte e qualsiasi! Perché poi, per poter analizzare, studiare, scomporre tutta questa mole di dati videoregistrati e ottenere solo quelli di uso effettivo evitando inutili trattamenti, occorrono tempo, risorse umane, tecniche e organizzative; ma servono, ancor di più, sistemi informatici con una appropriata capacità e velocità di calcolo.

La finalità perseguita dai sistemi di sicurezza video (installati da entità pubbliche o private) è quello di contenere, come già detto, l’accadimento dei fenomeni criminali, sia mediante repressione (individuazione degli autori dei reati) sia mediante prevenzione situazionale (effetto deterrenza): la teoria sociologica delle cd opportunità criminali, rappresenta proprio la finalità della deterrenza, secondo cui l’azione criminale può essere prevenuta riducendo l’opportunità di delinquere. Nella moderna società l’importanza data alla sfera privata è parimenti a quella concessa alla sicurezza, come alla disponibilità delle informazioni sui cittadini; in merito a ciò, discussioni relative alla presenza dei sistemi di videosorveglianza nelle aree pubbliche si contrappongono, appunto, a queste due preoccupazioni: raggiungere un equilibrato bilanciamento tra questi due concetti, complessi per ampiezza e eterogeneità, è decisamente impegnativo. Rinunciamo alla nostra privacy a tutto vantaggio della sicurezza, installando telecamere ovunque, o, in nome della nostra privacy rifiutiamo tutto ciò, accontentandoci di una minore sicurezza?

Dilemma filosofico, quanto razionale, quando si parla di sorveglianza video, e di tecnologie biometriche, ad esempio, per il controllo di sicurezza degli accessi. I primi sistemi di videosorveglianza erano basati su tecnologie, cd di prima generazione, che offrivano una sicurezza relativamente bassa, con immagine di scarsa qualità (linee TV) ma fortemente invasive della privacy (ottiche troppo ampie, sistemi di registrazione non gestibili, etc). Con l’avvento della seconda generazione c’è stato un sostanziale balzo nella risoluzione dei sensori video (MegaPixel) di gran lunga superiore al passato, e come efficace conseguenza, una maggiore sicurezza nella gestione dei sistemi, e immagini utilizzabili, per qualità, anche in sede processuale; ma immagini eccellenti sono sinonimo di maggiore invasività.

Inoltre, con questa nuova generazione di hardware e software è stato possibile ottenere risultati più compliance alle regole dettate dal Codice e dal Provvedimento generale in materia di videosorveglianza, poiché, proprio la loro architettura tecnicamente performante armonizza le tipiche funzioni video di sicurezza, con i sistemi e le procedure che limitano il flusso e la disponibilità delle informazioni videoregistrate.

Con la terza generazione di sistemi, si possono decifrare e registrare gli eventi sospetti, il comportamento umano, distinguere i volti, disponendo di funzioni integrate intelligenti che bloccano tutte le riprese video, ritenute superflue ai fini della security; l’analisi video intelligente analizzando, per mezzo di nuovi algoritmi adattivi, il comportamento delle persone e dei veicoli, fornisce allarmi in tempo reale, e strumenti di ricerca che migliorano i sistemi di videosorveglianza anche senza la presenza di personale. Da ciò si deduce la forte invasività sul trattamento dei dati personali che questa tecnologia genera nel campo della sicurezza video, ed è proprio per bilanciare la tutela della privacy alle esigenze di sicurezza, secondo normativa, che va attivata presso il Garante una verifica preliminare.

Nei Paesi Bassi, la polizia di Stato utilizza da diverso tempo questi sistemi cd smart, protetti (by default) da software che impediscono agli operatori di riprendere scene, non pertinenti ai fini giudiziari e/o di sicurezza; come si possono impostare, da progetto (by design), tutti quei parametri tecnologici di una videosorveglianza avanzata, senza violare le normative in materia di tutela dei dati. I vecchi precedenti sistemi erano basati sul basico concetto del tutto o niente, in fatto di registrazione e accesso ai dati video, nonostante i vincoli normativi in materia di raccolta, accesso, trattamento e conservazione dei dati personali; oggi, invece, possiamo utilizzare una tecnologia che ci permette di scegliere:

  • chi può accedere ai dati registrati;
  • a quali condizioni;
  • quanto tempo saranno memorizzate le immagini;
  • come utilizzare le videoregistrazioni;
  • come correlarle in altri database.

Ma la videosorveglianza di massa, per fini di sicurezza, sociologicamente funziona? A tal proposito, furono proprio le istituzioni europee a lanciare l’allarme sulle modalità abnormi, massive e invasive, di raccolta dei dati personali da parte delle agenzie di intelligence Anglosassoni, in special modo da quelle USA. In un rapporto pubblicato nel 2015, durante la giornata europea sulla privacy, ben 47 paesi del Consiglio d’Europa sostenevano che c’erano poche prove, sul fatto che la sorveglianza di massa sia stata finora capace di impedire, realmente, gli attacchi terroristici.

Fu lo stesso Garante, nel corso di un’audizione presso la Commissione per i diritti di internet, a spiegare come “l’esperienza ci ha insegnato che una intrusione sistematica e indiscriminata nella privacy dei cittadini non risolve le difficoltà del contrasto al terrorismo”.

La videosorveglianza nella sicurezza urbana

La Videosorveglianza del territorio come misura attuativa prevista nel nuovo pacchetto della Sicurezza Urbana, per rispondere alla domanda di sicurezza dei cittadini, da parte degli enti locali, rappresenta un fenomeno che in Italia, nell’ultimo decennio, ha registrato una crescita decisamente significativa. Il massiccio ricorso ai sistemi di videosorveglianza da parte degli enti locali è, senza dubbio, un fenomeno strettamente connesso all’innovazione normativa degli ultimi periodi, che attribuisce ai sindaci specifici compiti e competenze, volte a garantire l’incolumità pubblica e la sicurezza urbana. Il ricorso a tale tecnologia è ritenuta sempre lecita dal Garante solo se è rispettato il principio di proporzionalità, sia nella scelta se e quali tipo di telecamere installare, sia nelle diverse fasi del trattamento dei dati; già nel comunicato stampa del 5 marzo 2000 esortava, ancora una volta, gli enti locali che intendevano dotarsi di sistemi di videosorveglianza, nel rispettare i principi fondamentali previsti dalla legge sulla privacy.

I sindaci, investiti di questi nuovi poteri e competenze, già secondo l’art. 1 com. 1 della Legge N° 38/2009 potevano far ricorso alle tecnologie di sicurezza video: “per la tutela della sicurezza urbana, i comuni possono utilizzare sistemi di videosorveglianza in luoghi pubblici o aperti al pubblico”; e oltre: “la conservazione dei dati, delle informazioni e delle immagini raccolte mediante l’uso di sistemi di videosorveglianza e’ limitata ai sette giorni successivi alla rilevazione, fatte salve speciali esigenze di ulteriore conservazione”.

Ma fu lo stesso Garante, a prevedere, al punto 5.2 del Provvedimento generale del 2010, che l’uso dei sistemi di videosorveglianza per l’accertamento delle violazioni in materia di deposito dei rifiuti e discariche e controllo del territorio, stabilendo che, in applicazione dei richiamati principi di liceità, finalità e proporzionalità, l’utilizzo di sistemi di videosorveglianza risulta lecito con riferimento alle attività di controllo volte ad accertare l’utilizzo abusivo di aree impiegate come discariche di materiali e di sostanze pericolose solo se non risulta possibile, o si riveli non efficace, il ricorso a strumenti e sistemi di controllo alternativi.

E’ bene sempre ricordare che l’attivazione di qualsivoglia sistema di sicurezza video per il controllo del territorio urbano, come per le attività sanzionatorie previste nel CdS (Codice della strada), comporta sempre l’osservanza, da parte dell’ente locale, degli obblighi di informativa previsti dall’art. 13 del Codice privacy, mediante l’apposizione del cartello che deve essere collocato prima del raggio di azione della telecamera, quale informativa breve.

Nel caso di sistemi di videosorveglianza attivati nel corso di indagini di P.G (foto trappole, sistemi occultati, etc), tipico nel controllo delle discariche, sicurezza urbana o altri aspetti penalmente rilevanti, l’obbligo previsto all’art.13 viene meno, in base alla deroga prevista al punto 3.1.1 dello stesso provvedimento del Garante, fatte salve tutte le ulteriori garanzie contenute nello stesso provvedimento generale.

Quindi, va sempre attentamente valutato dagli organi pubblici, se sia realmente necessario raccogliere immagini dettagliate per perseguire le finalità dichiarate; mentre la raccolta, il trattamento e l’uso delle immagini acquisite, devono tutelare la riservatezza della cittadinanza e la protezione dei loro dati personali. Quando risulti necessario, per l’ente locale, installare sistemi di videosorveglianza intelligenti che prevedono un intreccio delle immagini con altri particolari (es. dati biometrici,) diventa obbligatorio sottoporre tali sistemi alla verifica preliminare del Garante.

Argomento peraltro rafforzato dal Ministero dell’Interno, Dipartimento di Pubblica Sicurezza, con circolare Prot. N°. 558/A/421.2/70/195960 del 6 agosto 2010: “appare importante rilevare come l’utilizzazione di sistemi di videosorveglianza per i luoghi pubblici o aperti al pubblico, qualora si profilino aspetti di tutela dell’ordine e della sicurezza pubblica, oltre a quelli di sicurezza urbana, possa determinare (..) l’affievolimento di alcuni principi di garanzia, quali, in particolare, quello dell’informativa”.

Ma la domanda vera è: i massivi sistemi di sicurezza video, sono davvero la soluzione (non eccessiva e invadente della privacy), la risposta sicura alla sempre più frequente domanda di sicurezza pubblica che la società richiede?

Ovviamente, anche qui ci sono due correnti di pensiero: quelli che accettano tale specifica circostanza come una sorta di giusto e bilanciato compromesso, sacrificando una porzione della propria privacy quale vantaggio per mantenersi al sicuro nei confronti di eventuali atti di natura criminale o terroristica, e coloro che nutrono, al contrario, forti dubbi sulla non invasiva e corretta protezione dei propri dati privati, in questo caso i feed video, riguardanti la vita pubblica e privata di ognuno. Altre scuole di pensiero più caratterizzanti, create non più dalla semplice fonte (cittadino) ma da fonti qualificate (addetti ai lavori), pongono interrogativi ancora più profondi.

In Inghilterra ad esempio, la videosorveglianza è stata un vero fallimento! Parole pronunciate da Mike Neville, capo dell’ufficio immagini, identificazioni e indagini video (Viido) di Scotland Yard: miliardi di sterline spesi in materiali per la videosorveglianza, ma nessuno ha riflettuto su come la polizia avrebbe usato le immagini e come utilizzarle nei processi, perché solo nel 3% delle rapine in strada a Londra i responsabili sono stati catturati grazie alle telecamere a circuito chiuso, onnipresenti nella capitale.

Non va meglio in Italia, a livello di videosorveglianza preventiva, basta citare i due eclatanti casi di scuola: 25 gennaio 2016, stazione Termini, circa 400 telecamere installate da RFI, alle quali si aggiungono quelle piazzate da ATAC (circa 700) nelle stazioni di fermata, sulle banchine, sulle scale mobili della Metro linee A-B; ma quella sera qualcosa non ha funzionato al meglio, perché il grande fratello tecnologico è servito a poco. Quindici ore per rintracciare un uomo che aveva, suo malgrado, scatenato il panico, colpevole del solo fatto di avere nelle mani un fucile giocattolo (si scoprirà poi essere un regalo per il figlio). A lanciare l’allarme era stata una donna che ha visto una persona, cappellino bianco e giacca azzurra, alla fermata della metro piazza Bologna, con in mano quello che a prima vista poteva essere scambiato per una arma vera. E le telecamere? Chi le guardava? Eppure, dopo l’allarme, il presunto intruder, dopo aver viaggiato sulla linea B, essere sceso a Termini, aver preso le scale mobili, attraversato tutta l’area commerciale, i corridoi della stazione, fatto il biglietto alla postazione selfticket (dotata di videosorveglianza), essersi diretto ai treni (sempre sotto l’occhio vigile del sistema video di stazione), superato il controllo di sicurezza ai varchi (dotati di telecamere) è partito in treno (munito di sistema interno di TVcc) direzione Anagni, in assoluta tranquillità! Inoltre: il 20 agosto 2017 su un convoglio della metro B le porte rimangono aperte lungo il percorso di ben cinque stazioni, dalla fermata di Quintiliani fino a Rebibbia, e non interviene nessuno. Né la sala operativa di Atac, che ha la regia del sistema di videosorveglianza di tutte le stazioni, né tantomeno il sistema interno del convoglio si accorgono di nulla! Riscontri che testimoniano come la videosorveglianza nelle attività preventive non sia poi così risolutiva!

Per converso, riscontriamo i brillanti risultati ottenuti, invece, dalla polizia danese: l’attentato terroristico di Copenaghen del 15 febbraio 2015 ha dimostrato, nei fatti, come invece la stringente sinergia (il futuro progetto Argo che verrà attivato nella città di Napoli) tra diversi impianti di videosorveglianza, della polizia, degli istituti bancari, dei commercianti, dei condomini privati, e quelli del sistema mobilità (taxi e trasporti pubblici) di Copenhagen, si integrano perfettamente in un apparato complesso ma dinamico, mantenendo inalterata la compliance dei singoli sistemi (riservatezza, privacy, protezione dei dati), trasformando il tutto, esclusivamente nei soli momenti di crisi, in un potente strumento investigativo, fondamentale per la ricostruzione degli accadimenti, senza violare mai la riservatezza dei dati personali.

Dunque, come visto, l’efficienza danese nell’uso dei sistemi di sorveglianza è notevole: con i soli e giusti dati video, senza ledere la privacy dei cittadini, ma soprattutto senza dare in pasto alla stampa inutili dati personali, validi solo al fine delle indagini, le autorità hanno ricostruito e messo insieme tutti i tasselli componenti le fasi dell’attentato e delle successive ore di fuga dei terroristi jihadisti, dando soprattutto un volto agli attentatori; efficienza ed efficacia unica dei sistemi, soprattutto se confrontata con i lunghi tempi riscontrati nel caso dell’attentato di Boston del 2013 durante la maratona, dove l’FBI usò foto e registrazioni dei sistemi di videosorveglianza dei privati per ricostruire l’accaduto, ma solo dopo tre giorni diramò le immagini degli autori. Altro caso è quello degli attentati di Londra nel 2005: nella città simbolo dei sistemi di videosorveglianza, con il più alto rapporto telecamere/abitante al mondo, occorsero ben quattro giorni e cento poliziotti per analizzare migliaia di ore di file video utili nel ricostruire l’accaduto.

Da queste analisi emerge chiaramente come l’obiettivo della videosorveglianza in ambito urbano, sia quello di garantire in modo sempre più efficace la sicurezza dei cittadini, prevenendo o reprimendo i reati, monitorando il traffico veicolare, e scoraggiando gli atti vandalici. Spicca, invece, in maniera netta come tali sistemi siano caratterizzati molto da una forte tendenza repressiva, postuma, piuttosto che preventiva: molto utile nella ricerca dei responsabili dei reati, rarissime volte è strumento di vera e propria prevenzione del reato.

La videosorveglianza nelle attività di polizia

La videosorveglianza come visto sinora, è ritenuta, in linea generale, un efficace strumento che agevola la percezione, nei cittadini, della sicurezza nel territorio; ma rappresenta anche un concreto supporto tecnologico per agevolare le indagini di PG, e per il solo fatto di catturare le immagini di un evento penalmente rilevante, è un interessante ausilio per identificare i responsabili dei reati.

Curiosamente, la registrazione di immagini video, quali mezzo di prova a fini del procedimento penale, non trova però una specifica regolamentazione nel vigente Codice di procedura penale (CPP). In altre parole, le regole in vigore dell’attuale procedura penale non inquadrano, a fini giudiziari, tale mezzo di prova, e ciò anche quando le immagini siano state “raccolte”, direttamente dagli organi di PG.

Tale carenza normativa sull’utilizzo processuale delle immagini, è stata colmata nel tempo da diversi pronunciamenti della Suprema Corte di Cassazione: l’attenzione dei giudici si è diretta, innanzitutto, sulle immagini raccolte nell’ambito dei luoghi pubblici. A questo proposito, la prevalente giurisprudenza, e in particolare quella di legittimità, ritiene che le immagini concernenti i luoghi pubblici, o aperti al pubblico, sono sempre utilizzabili in sede processuale, sia che derivino da opera investigativa della polizia giudiziaria, sia provenienti da impianti di videosorveglianza privati.

Secondo la Cassazione (Sezioni Unite, sentenza N° 26795/2006) le immagini captate in tali contesti fisici sono, di regola, potenzialmente sfruttabili in sede giudiziaria, quale prova atipica. I giudici di legittimità hanno ricordato, peraltro, che l’articolo 234 CPP consente l’acquisizione delle prove documentali. Dunque, anche le videoregistrazioni dell’impianto di sorveglianza apposto dalla persona offesa all’esterno della sua proprietà non possono essere considerate prove illegittimamente acquisite, trattandosi di prove di cui viene espressamente consentita l’acquisizione; come precisato che: è del tutto irrilevante che le registrazioni siano state effettuate, in conformità o meno, delle istruzioni del Garante per la Protezione dei dati personali, non costituendo la disciplina sulla privacy sbarramento all’esercizio dell’azione penale.

C’è un’altra fattispecie nell’uso della videosorveglianza in attività di polizia, sia essa di prevenzione o repressione, molto interessante: l’uso delle immagini video non più da produrre direttamente in sede processuale, ma quali prove per procedere al cd arresto differito. La classica tipologia di illeciti previsti e ricadenti in questa fattispecie sono i reati commessi all’interno degli stadi durante le manifestazioni sportive: il personale di polizia per entrare nel settore dell’impianto e raggiungere il responsabile per gli accertamenti previsti, deve essere certo dei dati video a riscontro in possesso, per certificarne l’identità del soggetto.

Per attuare simili misure di prevenzione e protezione, si deve ricorre necessariamente a sistemi integrati (hardware e software) di riconoscimento facciale (associazione di immagini e dati biometrici) fortemente invasivi ed eccedenti sulla sfera personale delle persone riprese; proprio per queste motivazioni il Ministero dell’interno ha richiesto al Garante una verifica preliminare, per la messa in funzione presso lo stadio Olimpico di Roma, di un complesso sistema di videosorveglianza cd intelligente, che correli contemporaneamente i dati video personali e i dati contenuti nel biglietto rilevati all’ingresso dell’impianto, con le immagini in realtime in caso di disordini durante l’evento.

Come abbiamo visto finora, nel campo della sicurezza pubblica, ma anche privata, la videosorveglianza rappresenta due tendenze contrastanti tra loro: la tendenza della sicurezza ad ogni costo contro quella della riservatezza personale nonostante tutto.

Si è passati da tecnologie (hardware e software) tipicamente analogiche, limitate tecnicamente a registrare tutto e comunque, a tecnologie digitali con la capacità di apprendere (hardware) secondo metodi deduttivi (software), e una potenzialità di acquisizione dei dati mediante il principio del solo quelli necessari.

E’ proprio la necessità di equilibrare queste tendenza tipica della videosorveglianza, quella di far convivere le necessità di sicurezza da una parte, e la tutela dei diritti degli interessati dall’altra, che spinse il Garante a disciplinare la materia pubblicando, dal 2000 ad oggi, ben tre diversi provvedimenti generali (anni 2000, 2004, 2010) in materia, più tutta una serie documentale a latere (leggasi provvedimenti sulla biometria, e sistemi intelligenti).

Invero, la videosorveglianza rappresenta un vincolo, una limitazione ed un condizionamento per gli individui: le massive acquisizioni di sequenze video, trattate ed elaborate dai software di sistema, contengono una molteplicità di dati personali sensibili, elementi questi idonei a rivelare l’origine razziale, etnica, le convinzioni religiose, le inclinazioni e le abitudini delle persone; da tutto ciò spicca un’ulteriore tematica decisamente allarmante: i dati video mettono completamente a nudo l’identità di una persona, rappresentando un problema per il singolo non più di mera e sola security, ma espone chiunque ad un vera e propria preoccupazione di sicurezza tipicamente safety, di concreta minaccia per la propria incolumità personale.

Come non possiamo sottovalutare la reale utilità sociale e di sicurezza della sorveglianza video, allo stesso tempo non possiamo ignorarne (letti in questi anni i numerosi richiami in materia del Garante) i punti deboli: una diffusa non compiuta armonizzazione con i principi fondamentali di necessità, liceità, proporzionalità e non eccedenza, della protezione, e alle finalità della raccolta dei dati personali.

Richiami peraltro spesso dovuti ad un equivoco fondamentale: sovente le istituzioni locali cadono nell’errore di credere che la sicurezza di una città sia direttamente proporzionale al numero di telecamere che la sorvegliano; più TVcc maggiore sicurezza? Decisamente no, perché i fatti ci raccontano l’esatto contrario, un’altra storia.

Infatti il massivo uso, e in un numero sproporzionato (il nuovo sistema previsto nella città di Firenze ne è l’esempio) di telecamere pone dei forti limiti di gestione operativa (chi guarda in real time?), di sicurezza dei dati raccolti (problema del big data) non indifferente (il caso studio londinese raccoglie dei risultati decisamente scadenti in rapporto alla invasività posta). Del resto anche i due casi accaduti a Roma evidenziano tutto questo: una grandezza sproporzionata di apparecchiature installate associata a una insensata raccolta di dati personali faticano nel controllare (prevenzione) un singolo cittadino, che tranquillamente attraversa centinaia di occhi elettronici senza alcuna reattività ne degli operatori delle sale operative, né tantomeno dei software di video analisi di sistema preposti al controllo artificiale; il caso del metrò che viaggia con le porte aperte, ancora più emblematico: a che serve raccogliere tutto questo quantitativo di dati video? Chi guarda materialmente in tempo reale le immagini? Gli operatori delle SOC? Il macchinista?

In questo secondo caso salta agli occhi la doppia valenza della videosorveglianza: l’incidente era chiaramente un accadimento caratterizzante la sicurezza safety, e la risposta non è stata affatto resiliente. In taluni casi questa analogia risulta pressoché impercettibile, ma un sistema di videosorveglianza non serve solo a tutelare la sicurezza pubblica o il patrimonio aziendale, ma può salvare (safety) la vita di una persona, se il dato video raccolto è trattato nel corretto contesto ma soprattutto nell’immediatezza dei fatti.

Bibliografia e sitografia consultata

A cura di: Giovanni Villarosa

Profilo Autore

Giovanni Villarosa, laureato in scienze della sicurezza e intelligence, senior security manager, con estensione al DM 269/2010, master STE-SDI in sistemi e tecnologie elettroniche per la sicurezza, difesa e intelligence.

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