I potenziali impatti a medio e lungo termine generati dai rischi di natura nucleare e radiologica sull’ambiente
Benché caratterizzati da aspetti diversi, sia sostanziali che afferenti alla loro stessa natura, i due mondi della Safety e della Security, ai quali ci riferiamo quotidianamente in riferimento alla prevenzione e protezione da eventi di natura rispettivamente colposa e dolosa, sono accomunati tra di loro da aspetti trasversali che li rendono complementari e interdipendenti; ci riferiamo in particolare alle criticità di Health ed Environment, aspetti spesso legati all’impatto (sia diretto che indiretto) generato da incidenti che hanno visto il coinvolgimento di sostanze pericolose di natura chimica, biologica, radiologica e nucleare.
L’aspetto di Health, ovvero la salvaguardia della salute delle persone non limitatamente alla permanenza nei luoghi di lavoro, bensì durante l’intero arco di vita, ha assunto col passare del tempo un’importanza sempre maggiore, correlandosi strettamente all’evoluzione dei nostri stili di vita; similmente la componente Environment, rappresentata dalla protezione del sistema Ambiente in tutte le sue dimensioni, rappresenta una delle maggiori criticità evidenziate dalla Comunità scientifica internazionale fin dal secolo scorso, in quanto caratterizzata da svariate vulnerabilità alla luce di attività antropiche sempre più impattanti e, purtroppo, spesso irreversibili.
In particolare quando si parla di sicurezza e la si abbina al termine “nucleare”, è immediato immaginare scenari apocalittici e minacce invisibili e pervasive che vanno a colpire dall’ambiente alla salute degli individui, fino a raggiungere il patrimonio genetico, facendo così nascere paure irrazionali spesso alimentate ulteriormente dalle fiction.
Le principali minacce nucleari che la storia ricorda fanno prevalentemente riferimento alla possibilità dell’impiego di armamento nucleare da parte delle potenze internazionali, il quale avrebbe potuto portare alla Mutual Assured Destruction, seguite dagli incidenti occorsi all’interno delle centrali negli Stati Uniti d’America (Three Mile Island), nell’ex Unione Sovietica (Chernobyl, Ucraina) e in Giappone (Fukushima); ulteriori minacce sono principalmente associate agli effetti sull’ambiente: tra gli anni ’70 e ’80 furono formulate ipotesi relativamente a uno sconvolgimento climatico causato da esplosioni atomiche denominato “inverno nucleare”, rivelatosi poi scientificamente infondato, nonché condotti studi sul contenimento, la gestione e lo stoccaggio delle scorie nucleari.
Tale problematica non è stata, ad oggi, ancora risolta a causa della complessità e della durata dell’emivita dei rifiuti radioattivi, suddivisi nel 2009 da IAEA – International Atomic Energy Agency in ben sei differenti categorie; è all’interno delle pubblicazioni sugli standards della sicurezza nucleare della IAEA (GSG n.01 – Classification of Radioactive Waste), che è possibile trovare come ufficialmente viene definito e considerato il materiale radioattivo nell’ambiente (Capitolo III, paragrafo 23).
I residui radioattivi, depositati nei decenni sulla superficie terrestre a seguito di molteplici attività, includono i residui dei test sulle armi nucleari, gli incidenti negli impianti nucleari e pratiche passate, come ad esempio l’estrazione dell’uranio, le quali erano soggette a un controllo normativo meno rigoroso di quanto previsto e richiesto dalle attuali norme in materia di sicurezza.
I rifiuti derivanti da operazioni di bonifica, ad esempio, dovevano essere gestiti come rifiuti radioattivi, attraverso una stabilizzazione in situ o lo smaltimento in apposite strutture dedicate: tali rifiuti, depositatisi sui terreni e nei boschi spesso di zone altamente contaminate, quali ad esempio quelle attorno all’impianto nucleare di Chernobyl, sono frequentemente oggetto non solo di incendi di piccole e medie proporzioni, ma anche di eventi di maggior magnitudo come quello occorso nel 2015, ove circa 400 ettari di bosco sono stati interessati da incendi incontrollati il cui fronte è giunto a soli 20 chilometri dalla centrale nucleare.
Ciò ha causato un rilascio ancora maggiore di radioattività, imputabile alla diffusione delle particelle radioattive assorbite dalla vegetazione coinvolta negli incendi e trasportate dal fumo degli stessi; di recente – tra il 4 e il 30 aprile 2020 – un vasto incendio ha parimenti interessato la zona di esclusione, disposta dalle autorità ucraine all’indomani dell’incidente del 26 aprile 1986, la quale si estende per 30 km intorno alla centrale nucleare di Chernobyl e per una superficie complessiva di 3100 km².
Nel corso di un test volto a verificare il corretto funzionamento dell’impianto in condizioni degradate, a causa di concomitanti effetti legati alla progettazione della struttura e alla violazione di svariate norme di sicurezza da parte del personale coinvolto nel test, il nocciolo del reattore n. 4 della centrale subì un brusco e incontrollato aumento della potenza e, conseguentemente, della temperatura; ciò determinò la scissione dell’acqua di refrigerazione in idrogeno e ossigeno, causando un innalzamento delle pressioni nelle tubazioni del sistema di raffreddamento del reattore tale da provocarne la rottura.
Il contatto dell’idrogeno e della grafite incandescente delle barre di controllo con l’aria, a sua volta, innescò una fortissima esplosione che divelse sia la copertura che l’intera struttura del reattore causando un vasto incendio; una nuvola di materiale radioattivo fuoriuscì dal reattore ricadendo su vaste aree intorno alla centrale, contaminandole pesantemente e rendendo necessaria l’evacuazione e il successivo reinsediamento in altre zone di circa 336.000 persone.
Furono così istituite delle aree sottoposte ad esclusione, di controllo permanente, di controllo periodico e a bassa contaminazione, che si estendono per quasi 200.000 Km² dalla zona dell’incidente.
L’incendio sprigionatosi il passato 4 aprile sembra aver avuto origine, a detta delle autorità ucraine, da un uomo di 27 anni, residente nel villaggio di Ragivka, che ha ammesso di aver dato fuoco a erba e rifiuti urbani in ben tre punti differenti, non riuscendo però più a controllare i roghi nel momento in cui il vento si era intensificato; la polizia nella regione di Kiev ha altresì identificato un ulteriore uomo, di 37 anni e sempre del luogo, coinvolto in un altro incendio nell’area di Chernobyl nello stesso periodo.
L’incendio è stato favorito dalle condizioni meteorologiche, connotate dall’assenza di piogge e forti venti nei dieci giorni successivi, impegnando più di 500 operatori a terra, due aeromobili Antonov An-32p del Servizio di Emergenza dello Stato, due elicotteri Mi-8 e oltre 90 veicoli autobotte; i quattro diversi focolai d’incendio hanno portato il fuoco a raggiungere i confini di Pripyat, distante appena due chilometri dall’impianto di stoccaggio di rifiuti radioattivi di Pidlisnyi, il quale ospita i rifiuti pericolosi di gran lunga più attivi dell’intera zona di Chernobyl.
Il 14 aprile le squadre antincendio di Chernobyl hanno riferito che gli incendi attivi in zona erano stati estinti, fortemente assistiti dall’arrivo di provvidenziali piogge; tuttavia, dal pomeriggio di giovedì 16 aprile, forti raffiche di vento hanno ostacolato le operazioni e favorito nuovamente lo spostamento delle fiamme, facendo comparire tre nuovi focolai nella zona di esclusione.
Secondo le autorità locali, dal 2 maggio nuovi piccoli incendi si sono estesi nella zona di esclusione di Chernobyl e nei vicini boschi di Kiev e Zhytomyr, ove più di 200 persone sono ancora impegnate a combattere le fiamme; inoltre, al centro dell’incendio nelle giornate tra il 6 ed il 14 aprile, le radiazioni rilevate sono state di circa 16,5 volte superiori ai valori normali, ben 2,3 microsievert rispetto al valore di 0,14.
Secondo l’Autorità di sicurezza nucleare ucraina, le concentrazioni di Cesio-137 misurate nella città di Kiev si sono mantenute a livelli molto bassi, quasi sempre inferiori a 1 milliBq/m3 che, se paragonato con il fondo usuale di circa 6 microBq/m3, dimostra il passaggio di aria contaminata sebbene in maniera lieve; tuttavia, nella giornata del 13 aprile in concomitanza con lo spostamento dei fumi dell’incendio su Kiev, sono state le stesse autorità ucraine a consigliare di chiudere le finestre.
In Italia, l’ISIN – Ispettorato Nazionale per la Sicurezza Nucleare e la Radioprotezione ha confermato che non sono stati rilevati valori anomali: “Tali concentrazioni, anche nelle ipotesi più cautelative che si possono formulare (ad esempio la persistenza della concentrazione massima per l’intera durata degli incendi e la presenza anche di Stronzio-90, l’altro radioisotopo oltre il Cesio-137 presente nell’ambiente a seguito dell’incidente di Chernobyl), risultano diverse decine di migliaia di volte inferiori al limite di dose previsto per la popolazione, non costituendo pertanto un pericolo per la salute e non rappresentando nulla di rilevanza radiologica”; analogamente si sono espresse le Agenzie regionali per la protezione dell’ambiente (Arpa), rassicurando che in Italia non sono stati rilevati valori anomali.
L’IRSN – Institut de Radioprotection et de Sûreté Nucléaire francese ha effettuato una simulazione attraverso strumenti di modellizzazione inversa, partendo dal presupposto che le emissioni radioattive medie avvenute tra il 3 e il 12 aprile 2020, continueranno dal 14 al 20 aprile 2020, e modellando la radioattività mossa dagli incendi; secondo lo studio “sarebbero circa 200 gli GBq5 emessi dalle ore 12:00 del 3 aprile 2020 alle ore 12:00 del 13 aprile 2020”.
Su questa base, attraverso l’analisi delle condizioni meteorologiche e delle loro previsioni, “le simulazioni IRSN indicano che le masse d’aria dall’area degli incendi, verificatisi il 5 e 6 aprile, sono state in grado di raggiungere la Francia nella serata del 7 aprile 2020”; tuttavia, i livelli di radioattività prevista sono estremamente bassi, inferiori a 1 µBq / m3 nel Cesio-137 (ovvero mille volte inferiori a quelle rilevate nella città di Kiev dall’Autorità di sicurezza nucleare ucraina).
I rischi più rilevanti in tale situazione sono quelli relativi alla sicurezza dell’impianto di Chernobyl e al degrado delle sue capacità, in riferimento, ad esempio, all’interruzione di energia elettrica che assicura il funzionamento dell’impianto di contenimento del nucleo e degli strumenti preposti al monitoraggio continuo; tale scenario, analizzato nel 2011 a seguito dell’incidente di Fukushima in Giappone, ha visto coinvolta l’Europa intera nell’effettuazione di stress test dedicati.
La maggior sicurezza in questo tipo di incidenti è proprio da ricercare nel continuo aggiornamento alle più recenti lessons learned, attraverso l’effettuazione di stress test e il continuo impiego di reti di monitoraggio per il controllo sia in situ che esteso a territori più ampi; infine, risulta determinante l’uso estensivo di sistemi satellitari, quali ad esempio la rete di monitoraggio FIRMS – Fire Information for Resource Management System della NASA, che distribuisce praticamente in tempo reale mappe sugli incendi attivi ottenute attraverso lo spettro-radiometro per immagini a risoluzione moderata (MODIS) e le immagini radiometriche a infrarossi visibili (VIIRS).
Gli studi e gli interventi per assicurare la sicurezza non si sono mai interrotti nella zona di Chernobyl; dalla costruzione del New Safe Confinement, l’arco di acciaio che ricopre il reattore della centrale ultimato nel luglio del 2019, ai più recenti studi condotti nell’aprile dello stesso anno da un team di esperti guidato dall’NCNR – National Center for Nuclear Robotics, un consorzio di otto Atenei (con Birmingham quale capofila) che ha mappato i 15 km2 della Foresta Rossa e dei suoi dintorni attraverso l’impiego di veicoli aerei senza equipaggio (UAV), utilizzando la tecnologia LIDAR per misurare gli spettrometri del paesaggio e dei raggi gamma per i livelli di radiazione.
L’uso di questi velivoli ha consentito di raggiungere distanze ridotte dalle fonti radioattive senza esporre i ricercatori alle radiazioni, confermando che il 90% della radioattività nella Foresta Rossa rimane nel suolo; inoltre, in un contesto di politiche per una generale riduzione della radioattività, sono stati identificati “punti caldi” di materiale radioattivo che non compaiono sulle mappe ufficiali e che, in futuro, potrebbero rappresentare ulteriori pericoli per la sicurezza globale qualora non considerati e adeguatamente monitorati.
Articolo a cura di Stefano Scaini e Claudia Petrosini