Gli hate crimes oggi. L’antisemitismo e le sue forme nascoste
A Sidney una piccola folla auspica l’utilizzo del gas per uccidere gli ebrei. In Germania, la polizia di Berlino registra la circolazione, sui social, di numerose immagini che mostravano persone intente a celebrare gli attacchi contro Israele distribuendo dolci da forno. A Londra decine di manifestanti suonano clacson e sventolano, festanti, le bandiere della Palestina e lanciano una bombola del gas contro la vetrina di un ristorante kosher.
Il conflitto israelo-palestinese di queste ultime settimane sembra aver riacceso sentimenti antisemiti in tutta Europa.
L’antisemitismo è un odio antico, il più “lungo” nella storia dell’umanità, espresso verso gli ebrei in quanto tali (o come osservava già lo studioso Jean-Paul Sartre, spesso anche in assenza di ebrei), ma che assume oggi volti e caratteri inediti in base al contesto sociale, culturale e politico in cui viviamo. Soprattutto nel periodo intorno al 27 gennaio di ogni anno, Giorno della Memoria, si registrano puntualmente atti di antisemitismo, anche in Italia. La raffigurazione delle stelle di David o di svastiche sulle porte delle case di deportati e partigiani, scritte offensive e antisemite davanti alle scuole e così via, ne sono un esempio.
Tra gli aspetti che caratterizzano le recenti forme di antisemitismo vi è la sua crescente e preoccupante diffusione online accanto alle numerose ormai espressioni di hate speech.
In generale, parlare di crimini d’odio e di discorso d’odio può implicare cose molto diverse.
Sinteticamente, un primo punto riguarda la definizione dei due fenomeni.
I crimini d’odio sono reati definiti da un ordinamento giuridico, motivati dal pregiudizio basato su una specifica caratteristica della vittima. Per hate speech, invece, si intende l’istigazione, la promozione o l’incitamento alla denigrazione, all’odio o alla diffamazione nei confronti di una persona o di un gruppo di persone fondata su motivi come “razza”, colore, religione, sesso.
Il secondo aspetto riguarda gli attori coinvolti all’interno di questi fenomeni: vittime, carnefici, giudicanti e narratori. Nello specifico, l’azione di gruppi organizzati di stampo discriminatorio, razzista o sessista, gli interventi casuali e destrutturati di cittadini comuni che attaccano obiettivi personalizzati, la comunicazione di singoli o gruppi che colpiscono “per gioco”, i provocatori che agiscono “per divertimento o sfida” (troll), gli ideologi della violenza o del terrorismo, ma anche alcuni influencer, i teorici della cospirazione, e non ultimi i politici e i giornalisti.
A questo si affiancano recenti derive comunicative in continuo mutamento: infodemie, teorie cospirative, nuovi razzismi e negazionismi. Si va dalla banalizzazione alla negazione della Shoah, con gesti di intimidazione e violenza che toccano molti Paesi occidentali e che nell’est Europa e nei Paesi arabi assumono toni parossistici.
La nuova ostilità antiebraica sembra essere influenzata da antiche immagini, paure e pregiudizi radicati stabilmente nella mentalità collettiva e nel nostro immaginario che prende forma all’interno delle piattaforme digitali.
Fenomeni di odio e di antisemitismo crescono nello scenario online nutrendosi delle logiche dei nuovi media della trasparenza e dell’interconnessione, sfruttando i meccanismi persuasivi generati dall’infotainment e dall’inciviltà del discorso pubblico e politico che trasformano l’odio e la discriminazione in “spettacoli” mediali che creano conflitto e dividono l’opinione pubblica.
Proprio per questo, è in un tempo di incertezza e mutamento continuo che giornalismo e giustizia dovrebbero cooperare, insieme alla scienza, verso fini comuni, in quanto pilastri di una società moderna che punta all’”infinito progresso”, a creare una informazione in grado di distribuire conoscenza e a rafforzare quelle reti relazionali e culturali ancora piuttosto fragili, oltre ogni pregiudizio e divisione.
Articolo a cura di Giacomo Buoncompagni
Università di Firenze, membro dell’unità di ricerca del progetto europeo Hideandola - Hidden Anti-Semitism and the Communicative Skills of Criminal Lawyers and Journalists