Compagnie di sicurezza private. Un investimento possibile per l’imprenditoria italiana?

Quando ci approcciamo a questo argomento dobbiamo preliminarmente esaminare alcuni fattori.

Il primo è il fatto che la situazione internazionale risulta notevolmente instabile. Conseguentemente, le forze armate nazionali di svariati paesi, tra cui l’Italia, sono impiegate in operazioni all’estero. Tra i principali teatri in cui attualmente operano le unità militari italiane troviamo: Libia (circa 300 unità), Kossovo (circa 550 unità), Libano (circa 1100 unità), Afghanistan (circa 950 unità) e Iraq / Kuwait (circa 1400 unità). Ciò è richiesto da esigenze di sicurezza nazionale indipendentemente dall’attuale congiuntura economica che impone sacrifici e tagli anche nel settore della difesa. Ragionevolmente, l’impegno italiano all’estero si accrescerà negli anni a venire in termini di uomini, materiali, mezzi e nuovi teatri di impiego.

Il secondo fattore, connesso con il primo, è che quando un’Unità militare viene proiettata fuori area, essa porta con sé un insieme di esigenze di tipo logistico, il cui soddisfacimento può venire (e, normalmente è) subappaltato a società locali. Si parla in questo caso di opere edili (per esempio, costruzione di una mensa in compound), materiali (per esempio, fornitura di veicoli alle cellule di Cooperazione Civile e Militare per la successiva distribuzione alle forze di polizia locali) e servizi (per esempio, spurgo dei pozzi neri oppure gestione di piccoli negozi – così detti PX – all’interno della base). Non solo, alcune attività di tipo prettamente operativo, possono essere subappaltate (e presso vari eserciti stranieri si usa farlo) a ditte civili (per esempio, scorta ai convogli logistici di approvvigionamento degli eserciti oppure alle imprese che, a vario titolo, lavorano con le forze armate).

Il terzo fattore è la progressiva diminuzione della disponibilità di risorse economiche e di personale (prevista la riduzione da 190.000 a 150.000 militari da qui al 2024) che interesserà le Forze Armate italiane. Ciò spingerà, progressivamente e inevitabilmente, i vertici militari ad ottimizzare le risorse economiche e di personale disponibili in Teatro di Operazioni. Tale contesto comporta lo sviluppo del settore privato proprio per le caratteristiche di innovazione e di miglioramento del rapporto costi / benefici di un determinato servizio che gli sono proprie.

Il quarto fattore è l’avvenuto passaggio dell’Italia dall’esercito di leva a quello professionale. Ciò comporta l’esigenza di reinserimento del personale militare congedato. Personale che spesso è dotato di professionalità estremamente pregiate, ma di non semplice collocazione nel settore privato. Quest’ultimo infatti, non è ancora strutturato né per comprenderne, né per sfruttare appieno il potenziale dell’ex militare (si pensi, per esempio, alla riconversione a un’occupazione civile, di un incursore). D’altro canto, i militari possono congedarsi per svariate ragioni (esigenze di crescita professionale, raggiunti limiti di età per la vita operativa, raggiungimento dell’età pensionabile in Forza Armata – che non coincide però con quella della vita civile -, ecc.). Molte di tali ragioni non comportano assolutamente una valenza negativa che possa pregiudicarne il successivo reimpiego in ruoli operativi come civili.

Al tempo stesso, ovviamente, un militare congedato è certo in grado di comprendere molto meglio di un civile le esigenze specifiche di un’Unità in teatro di operazioni e pertanto può offrire alla stessa un servizio migliore e più attagliato (si pensi, per esempio, alle esigenze di protezione delle informazioni sensibili connesse all’afflusso di personale estraneo dentro a una base militare, oppure quelle connesse alla conoscenza di località e orari ove verrà effettuata una distribuzione di alimenti alla popolazione locale da parte del Contingente).

Da tutto ciò appare quindi evidente che il progressivo sviluppo del settore privato in merito alla fornitura di alcune tipologie di servizi necessari ai militari all’estero è inevitabile e potrà avere, negli anni futuri, un forte incremento, creando così ottime opportunità di impresa per chi saprà sfruttarle.

Ma cosa intendiamo quando parliamo di una compagnia di sicurezza privata?

A livello internazionale, normalmente, viene effettuata una distinzione tra le private military e le private security companies. Generalmente, le prime forniscono servizi di tipologia prettamente militare (tra cui, alcune attività di consulenza estremamente specialistica, quale, per esempio, quella CIED, la scorta ai convogli, l’addestramento di unità militari e, a volte, anche la partecipazione diretta ad operazioni di combattimento per conto della nazione d’origine).

Le seconde, invece, sono più focalizzate sulla fornitura di servizi di protezione di personale civile espatriato (protezione abitativa e scorte), nonché di servizi logistici.

Ai sensi dell’attuale normativa vigente in Italia, una compagnia di sicurezza privata italiana, che impiegasse ex militari e che avesse sedi operative all’estero, potrebbe sicuramente fornire:

  • Logistica per le forze armate italiane (opere edili, vendita di beni e materiali, nonché servizi, quali, per esempio, la lavanderia);
  • Servizi di vigilanza privata (protezione abitativa e tutela del personale civile espatriato, scorta ai convogli civili finalizzati al trasporto degli approvvigionamenti militari, protezione delle infrastrutture, per esempio, degli impianti petroliferi).

La possibilità di fornire servizi di vigilanza anche presso le infrastrutture militari italiane (per esempio, guardia ad alcuni main gate) andrebbe invece soppesata con maggior attenzione, ma ciò più per ragioni di opportunità operativa che giuridica.

Si segnala inoltre che, a parere dello scrivente, non potrebbe essere considerato lecito che una compagnia italiana fornisse servizi di scorta armata, tramite personale italiano, anche al personale civile posto alle dipendenze di eserciti di altri paesi (anche se alleati dell’Italia). Ciò per evitare di incorrere nella violazione dell’art. 288 c.p. il quale così recita: “Chiunque, nel territorio dello Stato e senza approvazione del Governo arruola o arma cittadini, perché militino al servizio o a favore dello straniero, è punito con la reclusione da tre a sei anni”. Tale norma ha trovato scarsa applicazione in Italia, ma, in merito alla questione appena posta, sussistono due pronunce giurisprudenziali di segno contrario. Stante il contrasto appare saggio, pertanto, adeguarsi all’interpretazione più restrittiva.

La sentenza più risalente nel tempo è conforme alla tesi esposta da chi scrive e recita: “Ai fini dell’integrazione del reato di cui all’art. 288 c.p., devono intendersi quale “straniero” lo Stato estero, finalisticamente inteso nella sua dimensione pubblicistica e dunque nelle sue istituzioni anche solo rudimentali o affermate a livello embrionale; eventuali formazioni estere insurrezionali, quali truppe ribelli e bande ausiliarie; nonché gli enti di diritto internazionale e gli altri enti esteri (società di capitali, imprese straniere o multinazionali) laddove, pur mantenendo formale veste privatistica, presentino evidente interessenze di carattere pubblicistico o istituzionale ed un collegamento funzionale con lo Stato estero (perché ricevono sovvenzioni da parte dello Stato straniero o operano quale “longa manus” dello stesso), poiché solo in tali casi può dirsi leso l’interesse supremo dello Stato italiano a mantenere inalterata la potenzialità della forza numerica della popolazione destinata a scopi militari e violata l’oggettività giuridica tutelata dalla norma” (Tribunale Bari 18 ottobre 2004).

La seconda invece, contraddice l’interpretazione proposta e sancisce che: “L’art. 288 c.p. reprime l’arruolamento e l’armamento dei c.d. mercenari, cioè coloro i quali, dietro corrispettivo economico o altra utilità o comunque avendone accettato la promessa, combattono in un conflitto armato nel territorio comunque controllato da uno Stato estero o partecipano ad un’azione preordinata e violenta diretta a mutare l’ordine costituzionale o a violare l’integrità territoriale di uno Stato estero. Per converso, non rientra nell’ambito di applicazione di tale disposizione l’arruolamento dei c.d. operatori di sicurezza, cioè coloro i quali limitano strettamente la loro attività alle esigenze di tutela delle persone scortate, senza possibilità di ingerirsi in eventuali scontri tra milizie locali e forze militari della coalizione” (Corte assise Bari 16 luglio 2010 n. 7.

Ulteriore punto da analizzare è rappresentato dall’eventuale responsabilità legale dell’imprenditore in caso di ferimento o decesso di uno dei suoi dipendenti a seguito delle precarie condizioni di sicurezza sussistenti nel paese in cui l’attività verrebbe svolta. A tal riguardo appare sufficiente citare alcuni estratti della sentenza n. 32286 della Corte di Cassazione Penale, Sez. VI del 29 settembre 2006. La stessa rigetta il ricorso del titolare di un istituto di vigilanza privata che era stato condannato per omicidio colposo a seguito dell’uccisione di una guardia particolare giurata durante una rapina. La guardia, che non indossava il giubbetto antiproiettile contrariamente a quanto previsto nel Regolamento emesso dal Questore, era deceduta per un colpo di arma da fuoco.

Rileva la Corte che: “il datore di lavoro deve sempre attivarsi positivamente per organizzare le attività lavorative in modo sicuro, assicurando anche l’adozione da parte dei dipendenti delle doverose misure tecniche ed organizzative per ridurre al minimo i rischi connessi all’attività lavorativa: tale obbligo dovendolo ricondurre, oltre che alle disposizioni specifiche, proprio, più generalmente, al disposto dell’art. 2087 c.c., in forza del quale il datore di lavoro è comunque costituito garante dell’incolumità fisica e della salvaguardia della personalità morale dei prestatori di lavoro, con l’ovvia conseguenza che, ove egli non ottemperi all’obbligo di tutela, l’evento lesivo correttamente gli viene imputato in forza del meccanismo previsto dall’articolo 40, comma 2, c.p. (Cass., Sez. IV, 12 gennaio 2005, Cuccu). Tale obbligo comportamentale, che è conseguenza immediata e diretta della “posizione di garanzia” che il datore di lavoro assume nei confronti del lavoratore, in relazione all’ obbligo di garantire condizioni di lavoro quanto più possibili sicure, è di tale spessore che non potrebbe neppure escludersi una responsabilità colposa del datore di lavoro allorquando questi tali condizioni non abbia assicurato, pur formalmente rispettando le norme tecniche, eventualmente dettate in materia al competente organo amministrativo, in quanto, al di là dell’obbligo di rispettare le suddette prescrizioni specificamente volte a prevenire situazioni di pericolo o di danno, sussiste pur sempre quello di agire in ogni caso con la diligenza, la prudenza e l’accortezza necessarie ad evitare che dalla propria attività derivi un nocumento a terzi (cfr. Cass., Sez. IV, 12 dicembre 2000, Bulferetti)”.

Applicando i principi esposti, si può pertanto dedurre che in caso di esercizio di una compagnia di sicurezza privata sarà dovere dell’imprenditore organizzare le attività in modo tale che le stesse garantiscano i più alti standard di sicurezza possibili in tale contesto. La provenienza del personale impiegato dal settore delle Forze Armate rappresenterà, a seguito dello specifico addestramento ricevuto durante il Servizio e della professionalità conseguentemente acquisita, un elemento distintivo imprescindibile e fondamentale per garantire il rispetto di adeguati standard di sicurezza nello svolgimento di un’attività lavorativa in un contesto, di per sé, non permissivo ed estremamente difficile.

A cura di: Dott. Edoardo Mattiello

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