Active shooting events: casi di studio e dati statistici esaustivi all’analisi compiuta del fenomeno
Una prima disamina relativa alla figura dell’Active Shooter è stata sviluppata dagli Autori in un precedente articolo.
Nella storia ci sono stati molteplici eventi ove persone hanno ucciso in modo indiscriminato un gran numero di vittime innocenti (Active Shooting Events – A.S.E. e Active Shooting Hostile Events – A.S.H.E.); è sufficiente dare una rapida occhiata alle statistiche degli ultimi anni per comprendere quanto il fenomeno sia divenuto a tutti gli effetti una vera e propria guerra, dove l’obbiettivo principale non sono più gli Enti istituzionali quali, ad esempio, le Forze Armate o di Polizia, ma la popolazione e la società che la rappresenta.
Analizzando i molteplici e spesso assai articolati eventi avvenuti nelle ultime decadi, è importante ricordare e sottolineare quegli episodi che hanno, per vari motivi, creato una svolta nei campi sia della Security che della Safety; com’è tristemente noto infatti, eventi particolarmente tragici e violenti spesso riescono a cambiare la società stessa, unitamente alle strategie e alle tattiche di chi è deputato a difenderla, col risultato di sviluppare nuove metodologie d’intervento maggiormente efficienti ed efficaci.
Nel 1966, presso l’Università della città di Austin (TX, U.S.A.), si verificò il primo evento direttamente correlabile al fenomeno oggetto della presente trattazione.
In tale occasione Charles Withman, ex Marine, nel mattino del 1 Agosto 1966 uccise la madre presso la propria residenza e, di ritorno presso la propria abitazione, freddò anche la moglie, prima di scrivere una lettera d’addio ove motivava l’assassinio delle due donne per amore, per evitare loro l’umiliazione che avrebbero subito a seguito degli atti che lui stesso avrebbe compiuto da lì a breve.
Prese una borsa contenente diverse armi da fuoco leggere e si recò al Campus dell’Università del Texas, struttura che aveva frequentato con risultati scolastici non proficui in passato; ivi giunto, salì al 27° piano della torre dell’Università, iniziando una serie di uccisioni che si concluderanno solo con la morte dello stesso, neutralizzato dalle locali Forze di Polizia, terminando con un bilancio finale di 18 morti e 31 feriti.
A seguito di questo evento si evidenziò come le pattuglie ordinarie delle locali Forze di Polizia non avessero una visione strategica né una preparazione tattica, tanto meno un adeguato equipaggiamento, per potersi confrontare efficacemente con un soggetto ostile quale Charles Whithman.
Nel 1966, infatti, nella città di Austin non erano ancora state istituite le squadre d’intervento tattico, identificate dall’ormai famoso acronimo S.W.A.T. – Special Weapons and Tactics; tali unità, nate a seguito delle rivolte di Watts sviluppatesi nell’agosto del 1965, a causa del loro costo di costituzione assai elevato erano allora presenti solo in alcune realtà.
La Texas Tower rappresenta ancor oggi una vera e propria pietra miliare, uno dei punti chiave nei cambiamenti a livello di organizzazione delle diverse Forze di Polizia negli Stati Uniti d’America, con particolare riferimento alla nascita di squadre sempre più specializzate nella gestione di eventi ad alto rischio.
Fu però in particolar modo dal 1999, con la strage presso la Columbine High School (CO, U.S.A.), che il termine Active Shooter iniziò a echeggiare nella mente della collettività; una mattina del 20 aprile di quell’anno, nella città di Littleton (CO, U.S.A.), Eric Harris e Dylan Klebold, due giovani studenti della Scuola superiore Columbine, misero in atto un piano di attacco al proprio Istituto scolastico.
Dopo aver pianificato l’azione per oltre un anno, accumulato armi leggere e costruito ordigni esplosivi improvvisati, i due giovani iniziarono un complesso attacco avente come fine ultimo l’uccisione di massa di quante più persone possibili all’interno della scuola.
I giovani predeterminarono anticipatamente quella che sarebbe stata la loro ultima “grande” impresa, ovvero la vendetta nei confronti di una società alla quale non si sentivano di appartenere e che odiavano fortemente; in meno di un’ora uccisero 12 studenti e un insegnante, lasciando diversi feriti a terra e concludendo il tutto alle ore 12.08 con il loro stesso suicidio.
Tale evento fu una lezione che venne imparata rapidamente, in particolar modo fu chiaro come le Forze di Polizia locali intervenute, a causa del loro addestramento e dei protocolli vigenti, non avessero saputo in alcun modo interrompere l’evento messo in atto dai due giovani Active Shooters.
Si valutò infatti che, nonostante il primo intervento da parte di un agente (il cosiddetto Resource Officer, ovvero un operatore di polizia il quale viene distaccato permanentemente presso una struttura scolastica) fosse avvenuto in pochi minuti, le procedure messe in atto non diedero alcun supporto efficace alla risoluzione della criticità.
Gli agenti all’epoca seguivano infatti la regola delle 5C, ovvero Contenimento-Controllo-Comunicazione-Chiamare la SWAT e Creare un piano, dettami certamente validi per un evento ove, ad esempio, vi fosse la presenza di ostaggi, ma non in caso di un Active Shooting Event.
L’elemento condiviso tra le due tipologie di circostanza, ossia il fattore tempo, risulta infatti inversamente proporzionale: mentre nella situazione con ostaggi maggior tempo corrisponde a maggiori possibilità di risoluzione positiva (negoziazioni, pianificazioni, strategie, tattiche e migliori opportunità di studio), nell’Active Shooting Event è esattamente il contrario, ovvero il passare del tempo equivale a un sicuro crescendo di uccisioni.
Le Forze di Polizia a fine giornata constarono di ben mille unità sul posto, ove numerose furono quelle presenti già dopo un’ora; ciò nonostante, nessuno entrò nella scuola prima delle ore 15 circa.
L’opinione pubblica letteralmente esplose d’innanzi al risultato catastrofico derivante dal mancato immediato intervento, facendo emergere le seguenti criticità:
- il tempo di risposta fu corretto ma l’addestramento e il mindset degli operatori giunti come first responders non fu utile ed efficace nel caso di un Active Shooter: i peggiori nemici degli agenti accorsi nelle prime fasi dell’evento furono proprio l’incompetenza e l’impreparazione, sia a livello tattico che mentale;
- le unità sanitarie furono anch’esse bloccate nella loro opera a causa dell’intervento passivo delle Forze dell’Ordine;
- essendo intervenute unità da tutte le città vicine, ognuno lavorava su canali propri e quindi non vi fu comunicazione tra le diverse squadre; addirittura si arrivò a creare squadre di copertura aventi canali radio differenti dagli artificieri, i quali dovevano essere i protetti;
- come espresso in precedenza, il fattore tempo aveva assunto connotati opposti a quanto insegnato agli operatori e, quindi, la sua gestione doveva essere completamente rivisitata.
Ne nacque quindi il concetto di Rapid Deployment Team, ovvero di Squadra a rapido dispiegamento, nonché la creazione di un canale radio, il cosiddetto Emergency Traffic, dedicato alle situazioni ad elevata criticità che vedono coinvolte più forze di Polizia contemporaneamente.
Le comunicazioni gestuali vennero procedurizzate e rese uniformi e omogenee per tutti; inoltre, da allora, le pattuglie ordinarie vennero addestrate ad agire con immediatezza nell’ottica di “meno tempo, più vite”.
Nozioni di tattica vennero impartite a tutti gli operatori che, nel caso di un Active Shooting Event, avrebbero formato una squadra di almeno 4 elementi in proiezione alla ricerca dell’offender; le tecniche, differenti dai protocolli precedenti, non furono più basate sul concetto di attesa bensì di tattica dinamica, aggressiva e decisiva.
Gli operatori, acquisendo la capacità di agire subito in totale sinergia, sebbene non conoscendosi tra di loro, avrebbero permesso un intervento quanto mai rapido, andando a costituire fattivamente il nuovo protocollo denominato R.A.S., ovvero Response Active Shooter; inoltre, la collaborazione tra diverse Agenzie, portò alla nascita di un protocollo di risposta utile a tutta l’utenza civile, il cosiddetto R.H.F. ovvero Run-Hide-Fight.
Focalizzando l’attenzione a periodi decisamente più recenti, è utile ricordare il massacro presso la Sandy Hook Elementary School, avvenuto il 14 dicembre 2012 nella città di Sandy Hook (CT, U.S.A.); Adam Lanza, di anni venti, dopo aver ucciso la madre presso la propria abitazione, si recò presso la Scuola elementare di Sandy Hook dove, aprendo il fuoco contro chiunque gli si ponesse davanti, uccise 20 innocenti bambini di età compresa tra i 6 e i 7 anni.
L’evento, uno dei massacri con il più alto numero di bambini uccisi a seguito di un’azione di Active Shooting negli Stati Uniti d’America, colpì profondamente l’opinione pubblica, la quale comprese ancor di più quanto la figura degli Active Shooters non fosse un problema da sottovalutare; fu a seguito di questo evento che vennero messe in atto maggiori misure di sicurezza, sia attive che passive, soprattutto negli Istituti scolastici.
Il primo giorno del mese di ottobre 2017, nella cittadina di Paradise (NV. U.S.A.), l’azione di un uomo, Stephen Paddock di anni 64, terminò col proprio suicidio all’arrivo delle Forze di Polizia, dopo aver prodotto un bilancio finale di ben 59 morti e 851 feriti.
Egli salì al 32° piano del famoso albergo con casinò Mandalay Bay, con obbiettivo il pubblico presente ad un concerto di musica country facente parte del Route 91 Harvest Festival, armato di ben 23 armi da fuoco differenti e un gran numero di munizioni; almeno 12 di queste armi erano equipaggiate con mirini telescopici e caricatori ad elevata capienza, nonché dotate di bump stock, ovvero di un meccanismo che modifica le armi da semi-automatiche in automatiche.
Pur non essendo ancora definiti con certezza gli aspetti motivazionali del gesto, questo evento rappresenta ad oggi la più grande uccisione di massa condotta da un A.S. sul suolo degli Stati Uniti d’America, cui sono secondi solo gli attacchi identificati come la strage di Orlando del 2016 e il massacro del Virginia Tech nel 2007.
Stephen Paddock deteneva un arsenale di armi in modo assolutamente legale e le aveva modificate secondo le possibilità concesse dalle vigenti leggi U.S.A.; le indagini avvenute successivamente chiarirono nuovamente quanto questi A.S. pianifichino meticolosamente le loro missioni: basti pensare al fatto che Paddock scelse come posizione di tiro un luogo sopraelevato tale da permettergli un’ampia visione del suo teatro operativo, nonché una dissimulazione utile a non far capire da dove giungessero gli spari, permettendogli di poter far fuoco da una distanza di 450 metri.
Negli Stati Uniti d’America, dal 1986, il possesso di armi automatiche è parzialmente proibito: si possono possedere legalmente solo armi automatiche prodotte prima di tale anno e per farlo bisogna aver superato controlli particolari; paradossalmente, l’acquisto di un bump stock sino a quel momento era legale e legale, quindi, rimaneva l’arma modificata da Paddock.
Analoghi casi sono avvenuti nel mondo e in particolare in Europa, ove quello accaduto il 22 luglio 2011 in Norvegia, a Oslo e Utoya, rappresenta ad oggi ancora il più grande attacco complesso avvenuto nel territorio europeo, caratterizzato da un bilancio finale di vittime pari a 77 morti e 319 feriti.
Anders Behring Breivik, un giovane norvegese di 32 anni, preparò e pianificò l’evento nell’arco di diversi anni, identificando come obbiettivi le Sedi del Governo norvegese a Oslo e un seminario estivo del partito laburista in svolgimento sull’isola di Utoya.
L’attacco si sviluppò in due eventi ove il primo, sostanzialmente di backup, fu utile a distogliere l’attenzione e le risorse delle Forze di sicurezza da quello che sarebbe stato l’evento più complesso e maggiormente impattante dal punto di vista quantitativo; per ottimizzare la propria azione indossò addirittura una divisa estremamente simile a quella della Polizia norvegese, facendo quindi leva su come la stessa, per assunto sociale, sarebbe stata individuata come punto di riferimento nel momento in cui il panico si fosse scatenato.
Da questo evento si può evincere come la discriminante temporale sia essenziale: l’attore, nella sua pianificazione, aveva tenuto conto di come avrebbero risposto alla criticità le forze di Polizia e i soccorsi, assolutamente impreparate a un siffatto attacco in un paese come la Norvegia.
L’offender aveva calcolato che il suo secondo obbiettivo, un’isola, sarebbe stato indifeso e, in considerazione degli aspetti logistici, l’arrivo delle squadre speciali sarebbe stato assai complicato; inoltre, creando il primo evento, avrebbe guadagnato ulteriore tempo utile per portare a compimento la sua missione.
A seguito di questo accadimento l’Europa comprese come un A.S.H.E. – Active Shooting Hostile Event – sia repentino e di difficile gestione, nonché come le Forze di Polizia necessitino di un addestramento specifico, volto alla rapidità e all’efficacia, non potendo più attendere l’intervento di unità specializzate caratterizzate da tempi tecnici di dispiegamento notevolmente lunghi.
Breivik diverrà fonte d’ispirazione per altri A.S., i quali dichiararono la volontà di emularlo in virtù dei risultati da lui ottenuti; il 14 Dicembre 2012, Adam Lanza, il giovane A.S. della Sandy Hook, manifestò ad esempio la volontà di voler superare il norvegese.
Il 21 novembre 2012 un uomo di nazionalità polacca fu fermato con l’accusa di pianificare un attacco con esplosivi al parlamento polacco, ispirandosi appunto al gesto di Breivik; similmente, l’assassino della strage di Monaco di Baviera del 22 luglio 2016, Ali David Sonboly, mise la foto di Breivik come immagine di profilo sull’applicazione WhatsApp, scegliendo inoltre la data dell’attacco proprio in suo omaggio.
Egli, tedesco diciottenne di origini iraniane, munito di una pistola Glock 17 e diversi caricatori, iniziò a far fuoco verso i passanti iniziando la strage di fronte a un McDonald’s sito nei pressi del centro commerciale Olympia-Einkaufszentrum (OEZ) di Monaco di Baviera; suicida dopo un inseguimento da parte di due agenti in borghese a circa 1 km dal luogo dell’evento, sconvolse col proprio gesto il Governo tedesco, il quale dichiarò immediatamente di voler varare una riorganizzazione delle Forze di Polizia per contrastare tali avvenimenti.
Il desiderio di emulazione, favorito dalla spropositata diffusione di informazioni attraverso le piattaforme tecnologiche odierne, continua ad essere una delle prerogative di questi tipi di attacco anche in Paesi storicamente privi di eventi di particolari gravità; ad esempio Brenton Harrison Tarrant, di anni 28, realizzò due attacchi consecutivi a due moschee presso Christchurch in Nuova Zelanda, utilizzando pistole, fucili e due autobombe rimaste fortunatamente inesplose.
Tarrant creò inoltre una connessione tra il suo gesto e altri Active Shooting Hostile Events accaduti nel mondo, i cui nomi degli autori comparirono sui caricatori dei suoi fucili; un riferimento fu ad esempio fatto anche a un evento italiano – la tentata strage del 3 febbraio 2018 a Macerata – in quanto su una delle armi fu riportato il nome di Luca Traini.
Nel primo quadrimestre dell’anno in corso (2019) si sono registrati, negli Stati Uniti d’America, ben 105 casi assimilabili ad Active Shooting Hostile Events, per un totale di 120 morti e oltre 300 feriti; le ultime statistiche comprendenti sia casi di Active Shooting che casi di matrice terroristica avvenuti nel mondo ci dicono, ad esempio, che gli attacchi avvengono per lo più in luoghi chiusi e distribuiti nelle seguenti locations: nel 45% dei casi in luoghi di lavoro, nel 25% dei casi in istituti scolastici, nel 10% dei casi in uffici pubblici e nel restante 20% in altri luoghi di varia natura.
Relativamente alla durata dell’attività criminosa, le statistiche dimostrano che nel 60% dei casi l’evento in sé (fuoco attivo) è durato meno di 5 minuti, mentre nel 40% dei casi è durato più di 5 minuti; il primo intervento delle Forze di Polizia mediamente avviene da 3 a 5 minuti dopo l’avvenuta prima chiamata d’emergenza.
Altre statistiche ci dicono che le armi utilizzate durante questi attacchi sono nel 50% dei casi armi corte, nel 30% dei casi armi lunghe e, nel restante 20%, coltelli o altro; importante è inoltre sottolineare come nel 95% dei casi gli Active Shooters abbiano agito, fino ad oggi, senza alcuna protezione passiva.
Da recenti statistiche si evince inoltre che l’Active Shooting Event si conclude nel 46% dei casi grazie all’intervento risolutivo delle Forze di Polizia, nel 40% dei casi con il suicidio dell’Active Shooter, nel 10% dei casi con la resa del medesimo, nel 3% dei casi grazie all’intervento risolutivo di un cittadino e, nell’1%, con la fuga dell’offender.
Articolo a cura di Paolo Boffa e Stefano Scaini